Omelia (03-05-2015) |
don Luca Garbinetto |
Innestati in Cristo, vera vite Se si guarda una vite potata all'inizio dell'inverno, si ha l'impressione di avere a che fare con una natura morta. Il tronco rugoso e attorcigliato, con i nodi dei tralci tagliati, da' un senso di malinconia, che i contadini mediterranei conoscono bene. È in sintonia con il clima freddo che si avvicina e che stende un velo di silenzio sull'aria ricolma, fino a poche settimane prima, dei canti di festa della vendemmia. I frutti succosi sembrano un ricordo ormai lontano: è rimasto il vino, conservato con cura per fare memoria sulla tavola del sacrificio dei grappoli strappati, schiacciati, spremuti per dare il meglio di sé. La vite e la vigna sono una parabola straordinaria della vita. Lo sono soprattutto della vita spirituale, della vita in Cristo. Per chi ha sperimentato la bellezza di portare grappoli di bene nella vita e desidera continuare a dare frutto, o addirittura accrescere la propria capacità di dono, c'è da fare una scelta di fondo: quella di restare innestati alla vite e di accettare il prezzo della potatura. Essere ulteriormente spogliati dell'apparente vitalità delle foglie autunnali fa male. Ma la certezza che questa donazione sarà efficace e porterà nuova vita ci viene proprio dalla sofferenza della vite, da quel profilo quasi rannicchiato su se stesso che ricorda le parole del profeta: ‘È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.' (Is 53, 2). La vite è Gesù, il Servo che ‘non ha apparenza né bellezza', perché sulla Croce ha pagato per primo il prezzo della propria donazione. Ogni volta che viene potato un tralcio, è ancora Lui che soffre per le membra del proprio corpo donato che patisce per amore. Non siamo soli, mai, nel nostro dolore. A una condizione, però: che restiamo innestati in Lui! Ci sono, infatti, tanti tipi di piante che amano arrampicarsi sulla vite, appoggiandosi al suo tronco accogliente e succhiando persino il nutrimento dalle sue vene. Ma la radice dell'edera e degli altri parassiti rimane separata da quella della vite. C'è il rischio, a volte, che ci avvinghiamo a Cristo, mostrando di avere per Lui tanta passione e ardente desiderio. Ma invece di lasciarci rivestire della sua veste martiriale, copriamo Lui del nostro abito fastoso di formalismi e di ritualità, di giudizi e di interessi egocentrici. In fondo, nutriamo le nostre convinzioni comode della Parola asservita ai nostri bisogni. Si può vivere attaccati a Gesù come dei parassiti. E Lui, la vite, continua a donare e a soffrire. Ma la sua sofferenza, per noi, in quel caso non ha conseguenze, non ci permette di dare nuovi frutti. Oppure diviene un'ulteriore, accorata invocazione di Dio perché ci lasciamo ferire e innestare in Lui. È necessario essere innestati in Gesù, cioè accettare di attingere alla sua stessa radice. Che è la relazione con il Padre, sempre misericordiosa, ma anche sorprendente; ed è l'ascolto paziente e coraggioso dello Spirito, che illumina la nostra vita e la realtà con Parole e scelte controcorrente, poco avvezze ad adeguarsi al ‘tran-tran' del mondo. La radice di Cristo è la vita trinitaria, così intensa e densa di scelte nell'ottica dell'unità, della riconciliazione, della pace. Restare innestati in Cristo è fondamentale, perché i tagli dell'esistenza siano potature e non distruzioni. Alla violenza, Dio preferisce la concretezza e la radicalità dell'amore. Si tratta di scegliere la radice che nutre, perché le esigenze della crescita non portino lontano dal Pane della vita e dal Vino della festa. |