Omelia (14-06-2015)
padre Gian Franco Scarpitta
La virtù di saper attendere

Aspettare con pazienza è una virtù da forti. Chi la possiede nella gorma più elevata e sa come coltivarla, deve esserne orgoglioso poiché im essa ha modo di esercitare l'umiltà e la serenità di spirito ad essa conseguente. Saper attendere con pazienza i risultati del proprio impegno e di qualsiasi operato senza pretendere che i risultsti sortiscano immediatamente e senza sforzi equivale del resto a dare una giusta interpretazione di quelle che comunemente si definiscono sconfitte o fallimenti. Essi in realtà non sono che rinvii ad oltranza del successo, o se vogliamo germinazioni della vittoria. Quando infatti si agisce e ci si adopera nelle prime battute non si fa altro che piantare un seme. Perché questo germogli e produca frutto occorre tuttavia aspettare. Pazientare a lungo. A volte occorre anche avere l'umiltà di accettare che i propri raccolti non siano copiosi come si sperava. Ma in tutti i casi, coloro che sanno aspettare dono davvrro persone virtuose. Personalmente potrei ricordare lo stato di smarrimento in cui mi trovai quando mi trovavo agli esordi del mio ministero nella Comunità ecclesiale in cui mi trovo tuttora: la gente, abituata ad altro sacerdote Superiore, ti guardava con perplessità e sospetto. Certuni ti mostravano stretto pintanfo gli occhi addosso e snche i goovani e i rsgaxzi in più occasioni mostravano di non preferirti o trovavano un qualsiasi pretesto per contrastare il mio operato e ol mio spirito d'iniziativa (rivolto proprio a loro!). Non dimenticherò mai quella volta in cui un gruppo di ragazzi mi convocò a riunione per dirmi espressamente che volevano essere seguiti dall'altro confratello anziché vda me. Nonostante avesdi fatto tanto per loro. Sono stati necessari lunghi anni i di attesa, lotte e continua perseveranza nelle azioni per ottenere che finalmente tutti mi si accettasse e mi si stimasse. Gli stessi ragazzi che prima mi usavano indifferenza oggi sono i collaboratori più validi su tutti i fronti e con loro si è instairato anche un rapporto di reciproca stima e benevolenza. Occorre seminare e aspettare con pazienza anche se nel frattempo l'attesa si svolge all'addiaccio. Certuni credono che i mi miei scritti omiletici siano solo lavoro sapiente da scrittorio...
Attendere dopo aver seminato è il motto che deve contraddistinguere chi voglia entrare nella logica del Regno di Dio. Le parabole do cui si tratta in questa Domenica sono inerenti al tema dell'attesa, della crescita e dello sviluppo, come suole affermare Dodd.
E a proposito del riferimento odierno il Padre, Dio di misericordia, è il seminatore paziente e fiducioso che dissrmina nel campo la sua Parola. Essa si concentra soprattutto in Cristo suo Figlio che è Parola di Verità fatta carne. Egli è la Parola divina che si insinua nella nostra vita, per trasformarla secondo il suo progetto d'amore, proprio come il seme che, caduto e disperso fra le zolle di terra, si dipana e cresce un po' alla volta, viene alimentato dalla terra, dal sole e dai venti caldi per dispiegarsi progressivamente in tante spighe, ciascuna a sua volta con numerosi chicchi. Cristo, che sulla croce ha sparso il suo sangue per la nostra salvezza, è il seme, il chicco di grano che caduto nell'oscurità della terra è morto per poi apportare spighe illimitate di salvezza nella risurrezione. Ci domandiamo: perché questo seme di Parola
non trova terreno fertile nel cuore dell'uomo? Perché ci si ostina a rintuzzare alla fecondità della Parola l'ardità del terreno e la durezzavdella pietra? Probsbilmente perché, nonostante Dio abbia promesso in Ezechiele a tutti gli uomini un cuore di carnecin luogo di un cuore di pietra, a noi uomini, da sempre frivoli e superficiali, fa sempre comodo ciò che si oppone sl Dono di Dio e si preferiscono altre soluzioni più allettanti e solo apparentemente edificanti. Per l'uomo della società odierna, convinto che sia lecito e regolare convivere anziché sposarsi canonicamente, contrarre nuove nozze anziché persistere nelle immancabili difficoltà del matrimonio o addirittura abortire anziché attendere alla vita e alla maternità rrsponsabole, la Parola di Dio è di ostacolo. Reca fastidio perché comporta impegno e sacrificio anziché garantire comodismi e facilita e in effetti al sacrificio, specialmente nella nostra Europa epocale, siamo poco abituati. Nonostante questo, Dio Padre continua a confidare che il seme del suo Verbo apporti i suoi frutti e attende con pazienza la docilità del cuore umano che renda fertile il suo terreno, pur potendo decinm
Il Padre è l'agricoltore, il Verbo è la semente, il terreno è l'uomo. Ma in questo processo il terreno non è affatto passivo. La qualità del raccolto dipende infatti dalla buona predisposizione della terra, insomma dalla fertilità del terreno profondo e insondabile che è il cuore dell'uomo. Come ben si esprime un famoso paradigma della Scrittura, la Parola ha sempre la sua efficacia come la pioggia che discende dal cielo (Is 55, 10 - 11): essa ha in sé qualità per irrigare e predisporre alla crescita, ma se il terreno è arido e refrattario, non potrà che apportarvi pochi frutti. Il terreno dell'uomo si predispone sulla base della volontà e della predisposizione dell'uomo stesso, che di fronte alla Parola non deve mai mostrarsi sospettoso o diffidente, ma considerarla come un Dono, aprendosi deliberatamente con fiducia e lasciandosi formare da essa; ad essa dovrà poi conformarsi e su di essa dovrà poi impostare la propria vita.

Fermo restando che il primo seminatore è Dio, io ritengo che la prima delle due parabole richiamino pertanto anche la buona disposizione e l'intraprendenza dell'uomo. Il paragone infatti è evidente: "Così è il Regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno". L'uomo è infatti collaboratore di Dio nel diffondere la sua Parola, vivendola innanzitutto egli stesso, assimilandola e rendendola suo particolare criterio di vita. Particolarmente il cristiano, in forza del Battesimo che lo ha innestato in Cristo conformandolo in tutto a lui anche nella missione, collabora con Dio nell'essere seminatore con la particolare virtù di saper aspettare con fede i risultati del suo lavoro e affidando questi non già alle proprie capacità o alle sue singolari prerogative o ai propri talenti (anche quelli indubbiamente) ma contando esclusivamente nei tempi e nelle procedure di Dio. Anche l'uomo semina sul suo terreno e su quello degli altri, ma non prima che abbia sparso concime su quanto Dio ha seminato in lui. L'uomo raccoglierà quanto sarà stato in grado di seminare, tuttavia non senza la falce di Dio.
Come afferma infatti la Parabola, noi non conosciamo né saremo mai in grado di conoscere tempi e modalità con cui Dio fa crescere il suo seme, non ci è dato sapere quali procedimenti, tempi, sentieri Dio metta in atto per far crescere la propria semente, non sapremo mai quanti passi sono necessari fino al conseguimento dell'obiettivo. Nessuno può illudersi di pronosticare futuri risultati o di anticipare eventi e soluzioni. Occorre semplicemente lasciare fare a Dio, le cui vie e i cui sentieri sono differenti dai nostri (Is 55, 5) e saper attendere nell'umiltà, nella fede e nella speranza. La fede è infatti la prospettiva dell'accoglienza del Dono della Parola di Cristo e la condizione per perseverare in essa soprattutto quando essa si attua nella vita per mezzo della carità concreta. Essa è la condizione per la quale accogliamo il dono lasciando che solo Dio sappia come esso si sviluppi in nioi e prenda forma attorno a noi, vuol dire insomm a accettare l'opera di Dio con estrema libertà e gratuità. La fede però non è ddata senza la previa capacitàdi essere umili: nell'umiltà riconosciamo che nulla ci appartiene e che tutto è di Dio, anche la possibilità di farci lavorare nel suo terreno e questo ci rende in grado non di cercare strumenti appropriati, ma di lasciare che Lui stesso ce li fornisca. La speranza, che poggia sulla fede, ci dispone a quelli che sono i programmi e i tempi di Dio, i quali differiscono notevolmente dai nostri ma conducono a risultati che sono davvero i nostri. In questo prezioso trittico di virtù l'uomo semina la Parola facedndosi collaboratore di Cristo per la realizzazione del Regno e saggiando il Regno a sua volta e alla pari dell'agricoltore egli pianta lasciando che Dio faccia crescere. Come dirà poi Paolo, "Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere" (1Cor 3, 6).
Affidarci a Dio nell'essere seminatori nel suo nome comporta certamente l'essere piccoli e crescere progressivamente, senza bruciare le tappe. Chi si trova oggi a godere di una buona posizione di successo o a fare l'inventario delle copiose risorse acquisite ha dovuto iniziare con poco, affrontare le dure lotte e gli immancabili sacrifici che ogni traguardo comporta. Nessuno che abbia realizzato la propria fortuna o portato a termine un progetto senza prima iniziare dal poco è destinato a veder perdurare le proprie risorse: non potrà che capitolare.
Il verso successo, in ogni caso e in tutti i campi, inizia con una serie di fallimenti, di frustrazioni e di incomprensioni altrui, conosce insidie a volte precostituite, richiede costanza, fiducia e persistenza nella prova e nella tentazione di voler abbandonare. Ma quando finalmente l'obiettivo è raggiunto, ebbene i risultati sono paragonabili alla pianta che è scaturita da un insignificante granellino di senapa: ora è talmente grande da torreggiare su tutta la flora antistante e da diventare sede di numerosi nidi di uccelli. Prendere parte attiva alla novità del Regno realizzata da Cristo vuol dire seguire le sue orme instancabilmente e conseguire i medesimi premi di gloria anche se la tappa necessaria e inevitabile è sempre la croce.
Configurarsi a Cristo e immedesimarsi nella fede e nella speranza nella novità del Regno di Dio che nelle parabole esprime una realtà profonda di vita, ecco il destino del seminatore di Dio, il quale non può non essere instancabile e determinato sulle stesse orme del Crocifisso Risorto.