Omelia (21-06-2015)
don Alberto Brignoli
Grazie a Dio, anche al male c'è un limite

Il termine esatto è "esasperazione": e lo utilizziamo quando ci rendiamo conto che le cose che succedono nel mondo, vicine o lontane da noi, sono quasi esclusivamente impregnate di negatività, di pessimismo, di dolore e di sofferenza, in una sola parola, di male. Il male che c'è nel mondo si fa sentire in una maniera talmente aspra, dura, violenta e costante che nemmeno abbiamo il tempo di incassare un colpo da esso ricevuto, e subito ce ne assesta un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora, fino a trasformare l'asprezza della vita in qualcosa di reiterato e di logorante: qualcosa che - lo dice la parola stessa - porta l'individuo e la società alla "esasperazione". Sembra che i telegiornali debbano sempre iniziare con le notizie di cronaca nera, o comunque negative; sembra che il primo pensiero del giorno debba sempre essere "speriamo di farcela"; sembra che le ombre della notte debbano sempre presentarci tutta l'incertezza del domani che verrà; sembra, veramente, che il male non abbia mai fine.
Eppure, non dovrebbe essere qualcosa di eterno e di infinito: avrà pur avuto un'origine, e come tale dovrà pur avere una fine! Altrimenti, diviene un principio eterno; altrimenti diviene infinito, assoluto, e per questo invincibile; altrimenti - letto con gli occhi della fede - è come Dio, un principio increato e immortale, presente da sempre e per sempre, sovrastante l'uomo e la sua vita, l'umanità e le sue vicende. E allora, avrebbero ragione le teorie del manicheismo, quella filosofia o forma religiosa sorta quasi contemporaneamente al cristianesimo (anche se fuori dal contesto cristiano), per la quale il mondo è il teatro di un'eterna lotta tra i due principi del bene e del male, coevi e preesistenti al mondo; in questa lotta, a volte prevale l'uno, a volte l'altro, e a seconda di chi vince, nel mondo si assiste a un'evidente manifestazione del bene oppure a una recrudescienza del male. Ma finché prevale il bene, siamo tutti contenti: ciò che ci porta all'esasperazione, come abbiamo detto, è la recrudescienza del male, le cui continue manifestazioni ci logorano (è proprio il caso di dirlo) fino al Grande Male, la morte. Dove andremo a finire?
Un po' di speranza (non poca, per la verità) ce la offre la Liturgia della Parola, anche se, a dire il vero, in un modo tutto particolare. Che Cristo sia il vincitore del male e della morte è assodato e certo, nella nostra fede cristiana: e l'immagine della tempesta sedata così come ce la riporta il Vangelo di Marco ne è la conferma. Eppure, questo episodio riporta alla mente un tema che è presente da sempre nella Bibbia, e che apre un interrogativo intrigante quanto inquietante, molto ben espresso dalla domanda (peraltro senza risposta) con cui si chiude il Vangelo: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?". Tra l'altro - fatto unico, nella Liturgia domenicale, per quello che io ricordo - oggi oltre al Vangelo abbiamo pure la prima lettura che si chiude con un interrogativo, più o meno dello stesso tenore. Entrambi, infatti, conducono alla domanda intrigante e inquietante cui accennavo sopra: il male obbedisce a Dio? Dio è Signore anche del male, oltre che del bene?
Facciamo una precisazione, innanzitutto. Per noi, il mare rappresenta fondamentalmente un pensiero positivo, ancor più in questa stagione: con il suo fascino, i suoi colori, la sua atmosfera, i frutti che esso produce, è per noi fondamentalmente fonte di salute, di benessere, di vita. Ma nella tradizione biblica non è così. Pur offrendo sostentamento a chi nel mare svolge la propria professione (e i discepoli di Gesù, lo sappiamo, appartengono alla categoria dei lavoratori del mare), nella Bibbia questo è l'elemento naturale che più di tutti rappresenta il male: la furia dei suoi elementi, il timore generato dagli eventi atmosferici scatenatisi sul mare, l'imperscrutabilità dei suoi abissi dove addirittura si riteneva che dimorasse una mostruosa e diabolica creatura (il Leviatano, che nel mare "si diverte"...) facevano del mare un simbolo di morte, più che di vita. E questo dualismo tra vita e morte applicato al mare è qualcosa che accompagna in continuazione la storia dell'umanità, fino ai nostri giorni, con le notizie che quotidianamente giungono dal Mediterraneo, divenuto talmente attuale e centrale nella nostra vita da essere in grado di rovesciare governi e da divenire traccia per lo scritto dell'esame di maturità.
In questo senso, allora, si comprendono i versetti della prima lettura, tratta dal Libro di Giobbe, in cui l'autore, nell'arringa finale di Dio, tirato in giudizio da Giobbe che lo ha accusato di aver ingiustamente castigato con ogni sorta di prove la sua santità di vita, mette in bocca a Dio stesso la domanda fondamentale rivolta a Giobbe e all'uomo di ogni tempo: chi è padrone delle forze del male? Chi comanda su di esse? E lo fa, appunto, attraverso l'immagine del mare tempestoso, da Dio dominato e governato sin dalle sue origini, come fa un padre con un figlio, al quale offre cure e protezione ("dal seno materno lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura") ma al quale insegna pure l'educazione, ponendo dei limiti oltre i quali la sua capricciosa disobbedienza non può permettersi di andare ("fin qui giungerai e non oltre").
Vuol dire che Dio non solo è padrone, ma addirittura "padre" del male? Questo interrogativo diviene ancor più inquietante se leggiamo il libro di Giobbe nella sua interezza, dal momento che nei primi due capitoli si parla di una "corte celeste di figli di Dio" che si presenta a lui, e satana è in mezzo a loro, non di certo come elemento esterno, ma come ministro di Dio che fa un giro sulla terra. Membro della corte o figlio che sia, poco importa: pur essendo l'avversario, satana fa parte del progetto di Dio, al punto da iniziare con lui un sarcastico e insieme drammatico gioco sulla pelle di Giobbe, al quale tuttavia Dio pone un limite, quello di risparmiare la sua vita. Lo stesso limite che da sempre pone al male, simboleggiato dalla furia del mare. Lo stesso limite che il Figlio di Dio, l'Unigenito, non più "in giro", ma inviato sulla terra, pone al mare in tempesta, di fronte al quale non si agita più di tanto (anzi, se la dorme beatamente), forse perché sa di essere più forte di lui; o forse perché sa che si può rivolgere al male come a un figlio, come a un fratello, come qualcuno che può sgridare, minacciare, mettere a tacere, insegnandogli e ricordandogli l'obbedienza.
Proprio come Dio fa con noi ogni volta che l'urlo del male nella nostra bocca prevale più che l'inno di ringraziamento a lui; oppure ogni volta che la nostra poca fede - di fronte al male che ci circonda - accusa Dio stesso di disinteresse nei confronti dell'umanità. Ma Dio è superiore a tutti, anche al male: come possiamo pensare che possa abbandonare i propri figli in mezzo al mare in tempesta?