Omelia (05-07-2015) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Marco 6,1-6 L'umanità angosciata, sfinita, da sempre desidera vedere Dio, essere visitata dal Signore... Ma quando Dio mandò suo Figlio, quando il Verbo si fece carne e diventò uno di noi, noi non lo abbiamo riconosciuto: questo Messia non aveva niente di quel Dio onnipotente, Signore degli eserciti che ci eravamo immaginati e che stavamo aspettando... troppo umano, troppo fragile. Troppo...come noi. Sono sempre le aspettative che ci fregano...maledette aspettative! maledette convinzioni preconcette! Aspettative e convinzioni che sono anche le nostre. Se il Signore capitasse un giorno nella nostra chiesa e cominciasse a parlare... forse, anzi, senza forse, anche noi avremmo qualcosa da ridire, qualcosa da insegnare, qualche consiglio - e più di un consiglio - da dare... Soprattutto, se quel "Signore" lo abbiamo conosciuto da bambino, lo abbiamo visto crescere, se conosciamo di lui vita, morte e miracoli, come si suol dire... Curioso, invece di accogliere benevolmente il Signore Gesù, perché tutti lo conoscevano da sempre, dunque Gesù non doveva conquistarsi la loro fiducia, come gli stranieri; compaesani e parenti lo rifiutano...proprio perché lo conoscevano! Non vi sembra un paradosso? In verità non lo è: il proverbio citato da Gesù, "Nemo propheta in patria", nessuno è profeta nella sua patria, è una triste verità. Istintivamente si è più inclini a credere a qualcuno che viene da lontano, a qualcuno che non conosciamo, ma soprattutto che non ci conosce: i preti che vanno a predicare fanno spesso l'esperienza di ricevere le confessioni dei fedeli... Una sorta di pudore impedisce loro (ai fedeli) di confessarsi dal parroco: "Cosa vuole - ci confidano - il parroco lo conosco, siamo praticamente amici... Mi vergogno ad andare a raccontare le mie debolezze, i miei peccati...". Se lo si dice per il parroco, figuriamo per Gesù... Quello che colpisce del Vangelo non è dunque lo stupore della gente, ma quello del Signore: "E si meravigliava della loro incredulità", riferisce l'evangelista Marco. L'incredulità dei compaesani era tale che (Gesù) non solo ne rimase sbalordito, ma non vi poté compiere alcun miracolo. Eppure, avrebbe dovuto aspettarselo, no? Già in antico, Dio aveva suscitato profeti e, prima di inviarli, li aveva avvertiti che il popolo sarebbe stato duro di cuore, maldisposto ad ascoltare la loro parola. Tutto questo è scoraggiante! Prima ancora di parlare, l'apostolo sa che non verrà ascoltato. Che senso ha? Fatica sprecata! Tempo perso! Ebbene sì; se ragioniamo alla maniera di questo mondo, può sembrare veramente tempo perso, fatica sprecata... Ma per Dio no! Ciò che per gli uomini è tempo perso, per Dio e per il cristiano è tempo guadagnato; ciò che per gli uomini è fatica sprecata, per Dio e per il cristiano è energia investita nella maniera migliore!! Provate a pensare: se fosse stato veramente tempo perso, fatica sprecata, credete che l'annuncio del Vangelo avrebbe resistito venti secoli? E, se ha resistito venti secoli, pensate che non resisterà per i prossimi venti? Il segreto, la garanzia della tenuta dell'annuncio evangelico non è nell'uomo, ma in Dio: la Sua Grazia accompagna l'azione degli uomini, anche se talvolta sembra assente, o, peggio ancora, ostile... Nonostante quella misteriosa spina nella carne - nessuno ha mai scoperto di che natura fosse la spina nel fianco di san Paolo - l'apostolo dei gentili rende grazie al buon Dio perché non gli ha mai fatto mancare la Sua Grazia, la Sua vicinanza, il Suo conforto... Le debolezze delle quali Paolo si vanta, non sono, ovviamente, quelle che inclinano al peccato, ma le debolezze intrinseche alla natura umana: "nobody's perfect", nessuno è perfetto! Le nostre energie non sono illimitate e neppure i nostri giorni. E poi ci sono le debolezze che ci vengono a motivo del mondo, (a motivo) degli altri uomini: i bastoni tra le ruote, l'ostruzionismo, il remare conto; e poi le violenze, le sopraffazioni... Del resto, lo abbiamo sentito nel Vangelo, anche il Signore dovette fare i conti con il rifiuto e il cuore indurito di parenti e conoscenti. Se qualcuno non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi." (Mt 10,14): l'evangelista Matteo riporta le parole con le quali il Signore mette in guardia i discepoli; siamo esortati a non fare una questione personale dei nostri piccoli/grandi fallimenti: "Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe". "Non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi" (Mt 10,20). Fondamentale per il bene dell'annuncio, è il distacco, la libertà dal messaggio che pronunciamo: le Parole non sono nostre, ma di Dio; e noi siamo solo strumenti. Certo, uno strumento deve essere in condizioni di funzionare a dovere... Insomma, dobbiamo dare il meglio di noi, sempre! fare tutto ciò che ci è (umanamente) possibile per servire la Parola! Una volta che abbiamo fatto tutto ciò che potevamo fare, Gesù ci ricorda, restiamo sempre servi inutili. Non possiamo rivendicare alcun ascendente sulla Parola: nessun merito, quando il nostro annuncio ha successo; ma anche nessun senso di colpa, quando questo non riesce... L'atteggiamento genuino del discepolo è la gratuità! Gesù vuole scoraggiare ogni tentativo di strumentalizzare Dio, di servirsi di Lui, o di condizionarlo in un rapporto religioso di tipo contrattuale, o contabile, sul modello farisaico. Questa critica alla religiosità mercantile e pretenziosa è tanto più urgente quanto più nella comunità si ricopre un ruolo di responsabilità e di prestigio. Non a caso le parabole del servo sono rivolte per lo più agli apostoli; e non a caso, durante l'ultima cena, Gesù lava i piedi ai suoi, lasciando i panni del maestro, per indossare quelli del servo...che, in verità non ha neppure i panni per vestirsi... |