Omelia (05-07-2015) |
mons. Roberto Brunelli |
Figli testardi dal cuore indurito "Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito", dice il Signore al profeta Ezechiele (prima lettura, Ezechiele 2,4). E' la sorte che nella Bibbia tocca quasi sempre a quei portavoce di Dio che sono appunto i profeti, incompresi, perseguitati, messi a morte. Ed è quello che è accaduto anche a Gesù. Pur se nato a Betlemme, Gesù è chiamato talora Nazareno, cioè "di Nazaret", perché in questo allora oscuro villaggio della Galilea ha trascorso quasi tutta la sua vita terrena. Quando Maria e Giuseppe, da Betlemme fuggiti con lui in Egitto per sottrarlo alla persecuzione di Erode, dopo qualche anno tornarono in Israele, andarono a stabilirsi appunto a Nazaret, dove il fanciullo crebbe nell'anonimato, guadagnandosi da vivere col lavoro di falegname. A circa trent'anni diede inizio alla sua missione, durata tre ani appena; lasciò allora il villaggio, e si mise a percorrere la Galilea insegnando e compiendo prodigi, come abbiamo sentito nei vangeli delle scorse domeniche. Quello di oggi (Marco 6,1-6) riferisce di un suo momentaneo rientro a Nazaret, dove l'ha preceduto la fama del suo operato. E' sabato; da buon ebreo si reca nella sinagoga e, secondo il rito, vi prende la parola. E' tra i suoi, tutti lo conoscono, ci si potrebbe aspettare una favorevole accoglienza, magari mossa dall'orgoglio per quel compaesano divenuto famoso. E invece no, anzi il contrario: i presenti al rito rifiutano di credere che uno di loro, un qualunque falegname, non sia come l'hanno conosciuto. Dicono: "Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?". In altre parole: chi crede di essere? La nostra curiosità per quanto riguarda Gesù non manca di notare, in quelle parole, che vi si cita la madre ma non il presunto padre, Giuseppe, probabilmente all'epoca già morto, e che nel linguaggio semitico "fratelli e sorelle" indicano genericamente i parenti. Più rilevante è la risposta dell'interessato, il quale commenta il rifiuto dei compaesani con una frase divenuta proverbiale: "Nessuno è profeta in patria". Ed è proprio così; lo è stato per tanti altri personaggi storici; nelle debite proporzioni accade anche nel nostro quotidiano. La pigrizia, l'invidia, l'ottusità, qualche volta i calcoli di convenienza, impediscono di aprire la mente al nuovo; è più facile rifiutare le novità che cercare di capirle e ammetterne, quando c'è, la bontà. Una volta etichettata una persona, se le si scopre qualche magagna siamo facili - con finto stupore e intimo compiacimento - a cambiare l'etichetta in peggio, mentre facciamo una gran fatica a riconoscerle doti e meriti. La consuetudine di vita, l'intimità, fa velo alle potenzialità che ciascuno porta dentro di sé, e anche quando si manifestano sembrano incredibili. Nessuno è un eroe per il suo cameriere, è stato detto. Nel caso di Nazaret, poi, c'è di più. L'evangelista continua così: "E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì". Non poteva compiere miracoli: non perché gli fosse venuta meno la capacità, ma perché, lo si è visto le domeniche scorse, i miracoli sono legati alla fede, la premiano o la ravvivano. I compaesani di Gesù (tranne quei "pochi malati") non hanno fede in lui, dunque per loro niente miracoli. Non starà qui la ragione, o una delle ragioni, per cui oggi sono così rari? Nessuno è profeta in patria. L'amara, pur se realistica, considerazione di Gesù pare dire anche altro. Pare un'anticipazione di quanto accadrà di lì a non lungo tempo, quando il rifiuto di lui si estenderà dalla piccola patria del paesello alla grande patria dell'intero Israele, da Nazaret ai capi della nazione. Dietro le meschine parole dei compaesani, già si profila la croce. |