Omelia (25-12-2004) |
don Mario Campisi |
Dio non richiede credenziali Luca ci offre il contesto storico e geografico della nascita di Gesù. Da vero cultore della storia, colloca questo evento centrale della storia della salvezza in un preciso riferimento alla vicenda di Cesare Augusto e in tal modo ci ricorda che non è lecito concepire l'intervento di Dio per la nostra salvezza come qualcosa di estraneo, inverificabile e perciò a noi irraggiungibile. Il brano evangelico offre fortissime suggestioni. Fissiamo l'attenzione su alcuni punti. Il primo spunto di riflessione è offerto dai destinatari del messaggio natalizio: i pastori (v. 8). Essi vengono privilegiati non tanto perché poveri - come sempre abbiamo pensato - quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l'altrui. Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi: Dio non richiede credenziali né affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta. Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l'unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c'è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della "confraternita" a cui si appartiene, della sacrestia che frequentiamo? Un secondo spunto viene offerto dal messaggio. Contiene una promessa: "Troverete" (v. 12). Il "trovare" presuppone una ricerca, un cammino, un esodo: per i pastori si trattò di abbandonare i loro greggi e le loro capanne. Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo fedeli conservatori. E' un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio. Si tratta di ripercorrere a ritroso secoli e secoli di storia, di rileggere con nuovi occhi le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlem. E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso. Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia. Rispettivamente sono i segni della debolezza, del nascondimento, della povertà di Dio. Un bambino inerme. Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione. Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza. A questo punto il discorso sulla debolezza di Dio, più che assumere le cadenze del moralismo, dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti, manifestando la sua gloria nei segni della non-forza, del non-potere, della non-violenza. Le fasce sono il simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché non accechi i nostri occhi. Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Risorto, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci. Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle. Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce. E se ci mettiamo a "sbendare", le scoperte s'infittiscono: volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato. E' qui che Dio continua a vivere da clandestino. A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli, oltre la sacrestia; di lasciarci ferire dall'oppressione dei poveri, prima di lasciarci ammaliare dalle nenie natalizie davanti al presepe. Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, ritrovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità? La mangiatoia è simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio, che non trova posto quaggiù. E' inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell'umanità: non è lì. E' vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria... La mangiatoia è anche il simbolo del nostro rifiuto. Nella Messa di domani ascolteremo quel grido di Giovanni nel Prologo: "E' venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11). La greppia di Betlem ci interpella. Gesù non compie violazione di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi. Possiamo chiudergli la porta in faccia. Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia. Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua presenza, ha da offrirci qualcosa: il senso della vita, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, la voglia dell'impegno. Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di speranza. |