Omelia (12-07-2015)
don Maurizio Prandi
Legati a Gesù o al potere?

Stiamo cercando, in queste settimane, di capire qualcosa di più del nostro volto cercando di conoscerci e di riconoscere con verità le dinamiche il nostro vissuto, chi siamo. Stiamo facendo questo lavoro importante attraverso l'aiuto che ogni domenica ci viene dall'ascolto della Parola di Dio, nella quale stiamo provando a cogliere come degli "opposti" che ci chiamano a fare delle scelte. Un cammino che ha portato in tre passi a leggere la nostra vita alla luce
1) delle tempeste che vengono dai successi e delle tempeste che vengono dagli accadimenti negativi,
2) dell'avere una identità oppure il restare confusi tra la folla,
3) dell'essere profeti nel nostro oggi oppure persone scontate.
La liturgia della Parola di questa domenica mi pare definisca il volto del cristiano e della chiesa attraverso anzitutto la relazione con Gesù. Tema questo che ha percorso un po' tutti i vangeli delle ultime domeniche; quel chiamò a sé che oggi abbiamo ascoltato, possiamo provare a calarlo nella vita di tutti i giorni: Gesù chiama a sè per inviare... ed inviare, badate bene, non i migliori! Ne stiamo parlando al campo scuola proprio con i bambini più piccoli, quelli che appartengono alle comunità dei figli accolti, amati, perdonati... era un gruppo davvero eterogeno quello dei dodici... persone davvero particolari! Anche noi inviati da Gesù allora... ogni domenica, dopo l'ascolto della Parola, dopo la condivisione dell'Eucaristia... inviati! Si scorge qui il nostro essere chiesa. Anche qui è come se avessimo due strade di fronte: quella di legarci al potere, che bene ci illustra la prima lettura, oppure quella di legarci a Gesù. La strada del potere ci lega a noi stessi, ad una immagine e a dei privilegi da conquistare o da mantenere. Una strada sicuramente vincente, che ha dei ritorni sotto tanti punti di vista (economici, di visibilità) ma che ha l'effetto devastante di allontanare Dio dalla nostra vita. Può capitare credo... e non ti domandi più qual è la strada per piacere a Dio o per realizzare il sogno di Dio, ma qual è la strada per piacere all'Istituzione che può elargire, facilitare, promuovere: ecco che Dio rimane distante e il potere sempre più vicino. Il profeta Amos ci racconta di come il sacerdote Amasia sia diventato sacerdote del potere e il santuario non sia più lo spazio dell'incontro con Dio. A Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno... ecco: nel tempio non risuona più la parola di Dio, ma risuona la parola del re. Questo succede ogni volta che una istituzione religiosa abbandona il suo stile di sobrietà e si compromette con i potenti della terra. Il santuario è tradito (don A. Casati), il santuario è profanato, sono profanati i sogni degli uomini ed è profanata la rivelazione che Dio fa di se stesso. A Betel non profetizzare più... Betel... Bet (se non ricordo male) in ebraico vuol dire casa, ed El vuol dire Dio... come dire: nella casa di Dio non profetizzare più, perché Dio non è più il nostro re e questa è diventata la casa di Geroboamo II° il sovrano! Mi viene in mente un versetto della passione di Gesù in Giovanni quando il popolo risponde a Pilato: non abbiamo altro re che Cesare! Dicevo che profanati sono i sogni degli uomini, perché Betel è il nome dato da Giacobbe al luogo in cui ha sognato la scala sulla quale gli inviati, i messaggeri di Dio salivano e scendevano: porta del Regno, casa di Dio! Il luogo dell'apparizione è diventato santuario del re!

Di fatto, la prima lettura di oggi ci propone due modi di intendere la profezia e sono due modi diametralmente opposti: il primo, chiaramente distantissimo dalla realtà, dalla verità della profezia è quello proposto da Amasia potremmo definirlo così: essere "cortigiani". Amasia è il profeta del re Geroboamo, si ritiene un "professionista" della profezia in quanto stipendiato e tenuto in grande considerazione dal re. Autorità, prestigio, peso politico e uno stipendio sicuro gli sono garantiti proprio da quel suo agire da cortigiano. E' funzionario del santuario di Betel (il cui nome significa casa di Dio e che è diventato il santuario del re) e per tutte le ragioni che elencavo prima si preoccupa di mantenere l'ordine stabilito. Il secondo modello è quello proposto da Amos, un allevatore di pecore e raccoglitore di sicomori che ascoltando la chiamata di Dio si reca nel ricco regno del Nord (era originario del sud, di un piccolo villaggio vicino a Betlemme che si chiamava Tekoa) per annunciare, senza fare sconti a nessuno, che è necessario cambiare stile di vita, che bisogna ri-mettere al centro Dio, perché se è vero che si sta vivendo un'era di pace e di prosperità mai conosciuta prima, è altrettanto vero che ci si è dimenticati che tutto questo è dono di Dio e che non ci si può dimenticare dei poveri come si sta facendo, che non si possono scartare quelli che non contano, che non ci può essere chi si approfitta degli ultimi per arricchirsi sempre di più alle loro spalle. Amos è uno che non si spaventa, che non manca di coraggio... si scaglia contro i violenti, smaschera la corruzione, l'ingiustizia, gli squilibri sociali, l'ostentazione della ricchezza; il suo è un messaggio molto semplice, chiaro, diretto... potremmo dire, se mi si passa il termine, rivoluzionario. La prima lettura ascoltata oggi parla dell'incontro tra Amasia e Amos e quindi dello scontro tra chi cerca di soffocare un messaggio pericoloso e sovversivo e chi invece ha a cuore la trasparenza e la limpidezza della parola di Dio. Il povero Amasia è convinto di avere di fronte qualcuno che come lui è pagato, in questo caso pagato per seminare il disordine e l'agitazione. Lo chiama, con disprezzo, "veggente": niente di più distante dal profeta e poi gli rinfaccia le sue origini, la sua stranierità invitandolo a fuggire proprio là, da dove è venuto, la terra di Giuda al sud. Per Amasia è più importante la parola del re di quella di Dio, e visto che parlare male del re non è possibile, Amos sarà espulso dal regno del nord. Amos però è un uomo libero... vive la sua docilità a Dio e rifiuta di essere un servo del potere. Mi piace sottolineare una piccola cosa sul lavoro di Amos, raccoglitore di sicomori: chi raccoglieva sicomori doveva pungerli sul gambo per affrettarne la maturazione... Amos non è colui che raccoglie allora, ma colui che punge, non soltanto i frutti, ma anche le coscienze addormentate dei potenti e di chi vuole fare, del legame con i potenti, un modello di vita.

La chiamata a sè dei Dodici da parte di Gesù invece, è una chiamata legata alla sua persona, perché, come è stato di lui (di essere l'inviato del Padre), così vuole che sia anche per i discepoli.
L'inviare non è soltanto una missione, ma nasce dal fatto che Gesù abbia chiamato a sè i Dodici. Guai se nella chiesa, nelle nostre comunità cristiane, non ci fossero queste due dimensioni, complementari ed essenziali a un tempo: la chiamata a sè del Cristo è una chiamata in vista della missione, e dicono che l'invio dei discepoli da parte del Cristo nasce da una comunione a cui il Cristo ci chiama, insieme con lui. L'equilibrio tra queste due dimensioni non è facile. A volte assistiamo, nella chiesa, a questo costituirsi di gruppi, di movimenti, chiusi in sè, che non colgono la necessità dell'annuncio e della missione, e quando lo colgono c'è il rischio che la missione sia più per legare al movimento e al suo fondatore (o fondatrice) che non al Signore Gesù. Alla stessa maniera cogliamo nella chiesa il rischio, a volte, di considerare l'andare più come frutto di nostre iniziative che non come frutto della ‘comunioné che il Signore ci chiama a vivere con lui. Questo aspetto della comunione anche è molto importante: comunione con Gesù e comunione tra di noi, inviati, dice il vangelo a due a due per dire che tua sola forza è la parola del Signore che ti chiama e tua sola forza è l'amicizia di un fratello. Stiamo ancora vivendo, come scrivevo prima, l'esperienza dei campi estivi e durante il campo dei figli invitati ed accolti abbiamo proprio riflettuto su questo grazie a don Andrea: È più bello camminare da soli o insieme? Gesù ha fatto camminare sempre insieme i suoi discepoli, a 2 a 2, fino alla croce e anche dopo! Che bello questo: l'amicizia tra di loro doveva vedersi anche nel camminare insieme, nel fare la fatica di fare un pezzo di strada non da solo, non con il passo che voglio io e come voglio io, ma rispettando e aspettando anche l'altro e le sue fatiche.
Ma è vero anche il contrario, non solo io a dare il passo ma io a fidarmi, ad appoggiarmi... Mi piace quello che scrive a questo proposito E. Ronchi: è importante andare a due a due, avere uno su cui contare, un amico almeno, che ti garantisca, che ti dica che tu esisti, che sei amato, che sei capace di relazioni positive, che non si crede da soli. Il primo annuncio dei dodici è la loro vita stessa, un evento di amicizia, un germe di comunità, la vittoria sulla solitudine. Una parola questa, che sento ha incrociato e incrocia seriamente la mia vita: quando sono partito per Cuba ho vissuto con un sacerdote che non conoscevo... abbiamo vissuto insieme, ma non per dare il buon esempio... credo innanzitutto per essere testimoni della comunione che ci lega a Colui che per mezzo del nostro vescovo ci ha detto un giorno: andate! Non abbiamo potuto contare sull'amicizia (perché non c'era ancora), e abbiamo cercato di fare affidamento soltanto sulla promessa contenuta nella relazione che viviamo con Gesù. Che bello questo... sento che mi è stata data l'occasione di vivere quello che la preghiera Colletta di oggi ci propone: Donaci o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio... questo essere inviati a due a due vale anche (credo) per il rapporto tra sacerdote e comunità... nel senso che non sono inviato da solo, ma sono parte di una comunità; una comunità che sono chiamato ad ascoltare per imparare, una comunità su cui so di poter contare, una comunità che non ha meno titoli di me per essere soggetto di evangelizzazione. Ci è data un'occasione allora, oggi, per dirci come è bello centrare la vita sull'unico essenziale, Gesù.
Don Daniele Simonazzi dice alcune cose molto belle sul vangelo di oggi: il Signore non ci toglie tutto... ci lascia il bastone e i sandali. Ce li lascia perché sono gli strumenti dell'Esodo, gli strumenti del cammino. Il bastone che ha separato le acque, che ha permesso un passaggio, un'entrata, una salvezza, che ha sconfitto qualcosa che separava... ci è lasciato un bastone, per aprire cammini, per percuotere rocce e farle diventare sorgenti d'acqua. I sandali, per sapersi in cammino, ai quali non può attaccarsi la polvere della non accoglienza e del non ascolto. La dove non si ascolta c'è una polvere che contamina... bisogna scuoterla! Là dove non si accoglie c'è una polvere che contamina... bisogna scuoterla!
Questo è Gesù, preciso, esigente... non dobbiamo avere nulla di più caro di Lui.