Omelia (19-07-2015)
don Alberto Brignoli
Apostoli, tornate discepoli...

È ciò che agogniamo tutti, in questa torrida estate che toglie il respiro anche di notte: metterci in disparte, in un luogo isolato, e riposare un po'. Chi può, abbandona le città e le pianure e si rifugia in quel poco di fresco che rimane sulle montagne; e chi tra le montagne vive tutto l'anno, si inventa qualsiasi cosa pur di ricuperare quel clima gradevole che questi cambiamenti climatici hanno portato via anche ai luoghi notoriamente più freschi. E allora, in questa situazione che tutti ci auguriamo volga al termine al più presto, fa piacere sentire il Maestro che si rivolge così ai suoi discepoli di ritorno dalla prima importante missione: "Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'". Sappiamo bene che non lo dice loro per motivi climatici: ma di certo tra le fatiche del missionario del Vangelo c'è pure quella di affrontare situazioni particolarmente avverse anche da quel punto di vista.
Ma, tutto sommato, è la minore delle avversità. Gesù vuole che si riposino, che tirino il fiato, perché l'assillo delle folle nei loro confronti era tale che neppure avevano il tempo di mangiare. Magari in alcuni periodi dell'anno pastorale più che in altri, oppure in alcune situazioni di frontiera più che in altre un po' più agiate, chi si mette a servizio del Vangelo a volte sperimenta anche la difficoltà della mancanza di tempo per se stesso, talora anche con qualche rischio per la propria salute. Ma neppure questa mi pare la maggiore delle difficoltà dalle quali l'apostolo del Vangelo si deve guardare. Il rischio più grosso per la sua salute non viene dal clima o dalla mancanza di tempo per le proprie elementari necessità personali come il cibo e il sonno; la salute dell'apostolo viene messa a rischio nel suo aspetto spirituale, e non certo per colpa dello svuotamento e dell'esaurimento a cui può essere sottoposto (anche quello, magari, ma non credo più di tanto). Il rischio per la sua salute spirituale, l'apostolo lo avverte proprio...nel suo nome stesso: "Apostolo".
Non sono molte le volte in cui Marco utilizza questo termine per indicare i discepoli, anzi, se non vado errato è l'unica volta in tutto il Vangelo. Non è proprio la stessa cosa dire "discepolo" e dire "apostolo". Discepolo è colui che segue il Maestro per mettersi alla scuola della sua parola; apostolo significa "inviato", e quindi indica colui che, mandato del Maestro, va e ammaestra, insegna nel suo nome. I discepoli che tornano dal Maestro come "apostoli", si riuniscono intorno a lui e - dice Marco - "gli riferiscono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato". Sono talmente entusiasti dei successi della loro missione che "non stanno più nella pelle" di raccontare tutto quanto al Maestro. Luca, nel brano parallelo a questo, narra di apostoli che tornano entusiasti perché addirittura i demoni si sottomettevano a loro. Prova del loro grande successo è propriamente il fatto che la gente che aveva ricevuto da loro grandi insegnamenti e aveva visto i loro prodigi, non li lasciava in pace, e accorreva a loro da ogni parte, inseguendoli fino all'incontro con il loro Maestro, artefice di tutto questo: altrimenti, non si spiegherebbe come dei perfetti sconosciuti, pescatori come tanti altri, discepoli di un falegname di Galilea, possano ottenere un successo così grande.
Che questi discepoli divenuti apostoli si siano talmente entusiasmanti da montarsi la testa e credere di aver raggiunto lo scopo per il quale avevano seguito il Maestro, ovvero la realizzazione del Regno di Dio sulla terra? Che questi fenomeni compiuti con le loro mani abbiano fatto credere loro di essere divenuti onnipotenti come il Maestro? Magari mi sbaglio, ma non escluderei che stessero correndo questo rischio, e a mio avviso pare proprio il rischio spirituale dal quale il Maestro li vuole salvare. Cosa fa Gesù, nella sua sapienza, per riportarli "in riga", al loro compito di discepoli, prima che si montino troppo la testa? Fa proprio ciò che abbiamo menzionato: li chiama in disparte, e chiede loro di riposarsi un po', da soli, in un luogo deserto, ossia lontano dalla folla. Troppa folla fa male, fa davvero montare la testa: gli apostoli hanno bisogno di tornare a fare i discepoli, in un luogo deserto, dove le folle non ti osannano, dove nessuno ti esalta, in quelle "periferie esistenziali" - diremmo oggi - dove Dio non è esaltato, ma piuttosto ignorato se non addirittura osteggiato.
Perché fare l'apostolo tra coloro che ti portano in palmo di mano e attribuiscono a te e alle tue grandi capacità i meriti della salvezza, è bello e gratificante, e ti dona entusiasmo; ma fare il discepolo nel deserto, dove più nessuno ti acclama, e dove il Maestro ti chiede di aprire le orecchie prima che la bocca, non è affatto piacevole. Ma questo è un passaggio necessario, perché l'annuncio del Vangelo non è reso efficace dalla bravura dei nostri metodi "da apostoli": c'è bisogno ancora di imparare l'atteggiamento silenzioso e paziente del discepolo. E Gesù non perde l'occasione per insegnarlo agli "apostoli" entusiasti. Quando, infatti, giungono al luogo deserto con la barca, credendo così di aver aggirato le folle, si rendono conto che il luogo non è poi così deserto: perché il deserto non è il luogo dove nessuno ti osanna, ma una libertà interiore con cui puoi manifestare alle folle il più bello e il più profondo dei sentimenti di Dio, la compassione.
È Gesù che scende dalla barca (i "signori apostoli" è meglio che se ne stiano lì ad assistere alla scena e ad imparare, da bravi discepoli), e prima di "fare ed insegnare", ossia di dirigersi alle folle con i suoi insegnamenti e di donare loro il cibo che dà la vita (lo ascolteremo domenica prossima), offre alle folle questo grande dono della compassione, della misericordia elevata all'ennesima potenza (compassione è un termine che nei Vangeli indica uno stravolgimento viscerale per amore, ed è attributo solo a Dio).
Certo, insegnamento e vita, parola e pane: ma prima di tutto "compassione" per l'umanità, che agli occhi di Dio appare come un gregge senza pastore. Dove sono i pastori? Oggi sono rimasti sulla barca, per volere di Gesù, ad imparare che essere apostoli significa prima di tutto essere discepoli, essere come gli altri, condividere le sorti dell'umanità, sentire nelle proprie viscere ciò che essa sente, vivere ciò che essa vive, "odorare dell'odore del gregge", direbbe Papa Francesco. È così che si inizia ad essere pastori: con la compassione, con la misericordia, con la comprensione, con le braccia aperte per accogliere, e non con le braccia conserte per giudicare, con il Vangelo tra le mani, e non con i testi dottrinali, i codici e le norme, o ancor peggio la cassetta delle offerte. C'è spazio anche per queste cose; ma l'accoglienza nella Chiesa inizia dalla compassione.
Non c'è che dire: un altro bell'insegnamento, per noi uomini e donne di Chiesa, spesso troppo "apostoli" e ancora troppo poco "discepoli".