Omelia (02-08-2015)
don Alberto Brignoli
Un'unica opera: credere in Lui.

Prepariamoci a quattro domeniche d'agosto "infuocate", e non è il clima meteorologico ciò a cui mi riferisco. Non ve lo nascondo: non sarà per nulla facile comprendere questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, nel quale ci stiamo addentrando. Sarà una fatica, un lavoro serio: perché, del resto, la fede stessa è una fatica. Fatica e lavoro spesso coincidono: la fatica di entrare nella comprensione e nella profondità del mistero di ciò che Gesù ci vuole insegnare in queste domeniche, è il lavoro che ci viene chiesto da Gesù stesso. È lui, infatti, che nel Vangelo di oggi, ci parla di "lavoro", di "opera" da compiere per entrare nel mistero di Dio. Eppure, a noi risulta difficile vivere la vita di fede come "un'opera" da compiere. Per noi, credere è fondamentalmente un atto di fiducia e di amore nei confronti della persona alla quale crediamo, in questo caso il Dio di Gesù Cristo. Perché, allora, il Vangelo di oggi ci parla della fede come di "un'opera da compiere"?
Torniamo al fatto narrato la scorsa domenica, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: al termine di una giornata gloriosa, Gesù - invece di approfittare della sua popolarità - si ritira da solo, lontano dalla folla che lo voleva fare re. Egli sa di essere il Messia, ma come servo dell'uomo non ha nessuna intenzione di diventare re. La folla, però, non demorde, e continua ad andare alla ricerca di Gesù perché sa di aver trovato in lui uno che può risolvere i suoi bisogni primari: la salute e la fame. Gesù e la folla si trovano da subito su due binari diversi: inizia una specie di "dialogo tra sordi" in cui non ci si riesce a intendere, o meglio, la folla non capisce ciò che è veramente necessario alla vita, ovvero qualcosa che vada aldilà dei puri bisogni materiali. È come se Gesù dicesse alle folle ciò che dice a satana quando lo tenta nel deserto sulla fame: "Non di solo pane vive l'uomo". Eppure, su qualcosa Gesù e le folle si intendono, ed è ciò che dicevamo prima: la vita di fede è un'opera da compiere. Ma cosa intendono entrambi per "opera"?
La folla, nel linguaggio di Giovanni, indica non solo una concentrazione occasionale di persone: si tratta del popolo d'Israele, visto da Giovanni come "folla" perché priva di una guida importante, di un leader, di un pastore (delle sue guide, delle sue autorità, non c'era da fidarsi, ecco perché cercano in Gesù un maestro e un capo). Proprio perché "popolo d'Israele", la sua identità è intorno al Tempio e alla Legge. Al Tempio nuovo che è Gesù - lo dicevamo domenica scorsa - era già accorsa per la prossimità della Pasqua; perché la Pasqua sia completa, ora il popolo chiede a Gesù che faccia il Maestro (lo chiama Rabbi, infatti) e che indichi chiaramente quali sono le norme di comportamento della sua dottrina ("Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?"), casomai ci fosse bisogno di aggiungere qualcosa all'opera fondamentale di Dio, che è la Legge.
L'intento delle folle è buono, non c'è che dire: ma non coincide con ciò che Gesù è venuto ad annunciare, non fa parte del bagaglio del suo insegnamento. Gesù non è venuto nel mondo per dare normative o leggi che si aggiungono alla Legge di Mosè, già così ricca e anche così oppressiva, per certi aspetti. Una Legge è sempre il metro di giudizio di comportamenti da giudicare o da condannare. È proprio il Vangelo di Giovanni, al capitolo 3, che rivela l'obiettivo della missione di Gesù ("Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui"); sarà ancora il Vangelo di Giovanni (cap. 15) a rivelare che l'insegnamento di Gesù non ha bisogno di nuove leggi o comandamenti, perché tutto si concentra nel Comandamento dell'amore reciproco ("Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi"). Le opere di Dio come le intende Gesù, allora, non sono quelle che intende la folla, che le fa coincidere con una nuova Legge, come fu ai tempi di Mosè, tant'è vero che subito fanno il paragone con il pane dell'Esodo, la manna. Gesù prende spunto da questa citazione della manna per far comprendere alla folla che non è più il momento di chiedere Leggi, di fare nuove opere, di porre in atto dei segni (e cosa vogliono di più, oltre al miracolo dei pani e dei pesci?) o di fare confronti con l'esperienza pur significativa dell'Esodo: è il momento in cui la fede deve divenire un incontro personale con Dio attraverso il suo Figlio. Questa è l'unica opera chiesta al nuovo popolo dei credenti: credere in Gesù, Figlio di Dio.
La fede cristiana non è un insieme di opere da compiere e nemmeno una serie di Leggi sulla base delle quali essere giudicati: è l'incontro definitivo e personale con un Dio che salva. Colpisce che nel Vangelo di Giovanni, l'intento di Gesù non è di manifestarsi al popolo attraverso le opere che compie. I miracoli, li compie anche nel Vangelo di Giovanni, come no? Dal primo grande segno delle nozze di Cana, alla guarigione del figlio di un funzionario, dalla guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà, alla moltiplicazione dei pani, dalla camminata sulle acque, alla guarigione del cieco nato, fino alla resurrezione di Lazzaro: i sette miracoli descritti da Giovanni (non a caso, numero simbolico) sono di enorme importanza, ma puntano soprattutto a rivelare Gesù stesso, la sua persona, ciò che egli è, più che ciò che egli fa. È proprio il Vangelo di Giovanni che rivela l'identità di Gesù: egli è l'Acqua che zampilla per la vita eterna, è il Pane vivo disceso dal cielo, è la Luce del mondo, è il Buon Pastore, è la vera Vite, è la Resurrezione e la Vita.
Ci verrebbe da chiedere cosa cambia, con questo, per la nostra vita di fede: credere alle opere che Gesù compie o credere a ciò che egli è, non è forse la stessa cosa? L'importante, non è forse credere in lui? No, non è affatto la stessa cosa. Credere alle opere e ai prodigi da lui compiuti - come fanno le folle - significa fissarsi sui segni e non sulla potenza di Dio che li compie: tant'è che quando Dio non compie segni, o quando i nostri occhi sono incapaci di riconoscerli, sentiamo il vuoto, il silenzio, l'assenza di Dio (come sul Golgota) e la nostra fede viene meno. Credere in lui e vivere un profondo rapporto personale con lui nella persona di Gesù rappresenta la nostra salvezza, in ogni circostanza e in ogni occasione, anche quando Dio sembra tacere. Fare comunione con lui, mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, rappresenta - lo vedremo nelle prossime domeniche - l'unica vera grande opera che egli ci chiede di compiere per ottenere pienezza di vita: "Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna".