Omelia (16-08-2015) |
don Alberto Brignoli |
Nella carne e nel sangue Quella Sapienza che nella prima lettura di oggi si presenta come una padrona di casa attenta ai suoi ospiti, pronta a invitarci alla sua tavola e a deliziarci dei cibi prelibati da lei accuratamente preparati, venga in nostro soccorso, e ci aiuti a entrare sempre più nella comprensione del mistero di questo affascinante discorso del Pane di Vita del capitolo 6 di Giovanni, che ci sta accompagnando in questo mese. Un discorso non facile, l'abbiamo detto a più riprese; un discorso per "palati raffinati", per gustare il quale occorre preparazione, eppure rivolto a ognuno di noi, a gente "di bocca buona", a gente inesperta di misteri della conoscenza di Dio. Eppure, è consolante proprio l'invito fatto dalla Sapienza: "Chi è inesperto, venga qui... Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l'inesperienza e vivrete". Dopo due millenni di cristianesimo, e dopo moltissimi secoli di catechesi eucaristica e di venerazione al Corpo e al Sangue di Cristo, a noi non risulta per nulla difficile stabilire una connessione diretta tra questi versetti del libro dei Proverbi e quelli scritti seicento anni dopo nel vangelo che abbiamo ascoltato: è la vicenda di Gesù, riconosciuto dai suoi discepoli come il Messia, il Figlio di Dio, a stabilire questa connessione tra il pane e il vino di Proverbi e "la carne e il sangue del Figlio dell'uomo" citati da Giovanni. Praticanti o meno, la nostra conoscenza della dottrina cristiana non fa fatica ad accettare queste affermazioni e a vedere nel pane e nel vino offerti nella messa il Corpo e il Sangue di Cristo. Ma per quegli interlocutori di Gesù che a Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, stanno ascoltando le sue parole, non fu così facile comprendere che egli stesse parlando di un Pane e di una Carne di vita eterna, quelli stessi che poi noi cristiani avremmo continuato a spezzare e mangiare nell'Eucaristia. Per le folle, ma in modo particolare per i Giudei, ossia i capi del popolo, Gesù rasentava la bestemmia e la follia: la bestemmia, perché si identificava con il Dio dell'Esodo ("Io sono"), la follia perché "costui", questo rabbino figlio di un falegname qualsiasi, era convinto di donare la vita eterna a coloro che avrebbero mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue. Già la scorsa domenica aveva accennato a queste tematiche, creando non poco scompiglio: come se non bastasse, oggi rincara la dose, affermando che non si tratta più solo di un Pane di Vita, ma di una carne che dà la vita al mondo, di una carne che va mangiata e di un sangue che va bevuto, fino in fondo, senza riserve; di una carne e di un sangue, ovvero di un cibo e di una bevanda, che sono capaci addirittura di risuscitare i morti. Chi di noi non avrebbe avuto perplessità nell'ascoltare Gesù in quel momento e soprattutto nell'andare dietro di lui come suo discepolo? Gesù stesso è consapevole di questa difficoltà nel seguirlo, lo vedremo domenica prossima: per questo non accusa i propri interlocutori di "durezza di cuore" come in altre occasioni nel Vangelo, e lascerà a ognuno dei suoi discepoli la libertà di seguirlo o di andarsene. Noi siamo decisamente più fortunati, perché ci viene data la grazia di comprendere qualcosa in più della profondità di queste parole, nulla togliendo comunque alla nostra risposta di fede, che non può mancare. Va innanzitutto ricordato che Gesù sta facendo un parallelo tra il Pane di Vita che lui ha spezzato per i cinquemila (e che continuerà a spezzare per i suoi lungo la storia) e il pane dato ai padri nel deserto dell'Esodo; e abbiamo visto pure come sia esplicito il rimando alla Pasqua, per la prossimità a quella festa. Esodo e Pasqua, per il pio ebreo, trovano la manifestazione più alta nel banchetto dell'agnello pasquale, memoriale perpetuo della notte della liberazione. È a quello stesso agnello che Gesù si rifà nel suo discorso, parlando di carne e di sangue. E non dimentichiamo che la prima proclamazione di Gesù nel Vangelo di Giovanni è propriamente "Ecco l'Agnello di Dio" da parte del Battista. Gesù si presenta quindi non solo come un Pane che vale più della manna, ma come un Agnello che vale più di quello pasquale. Infatti, dell'agnello pasquale si mangiava solamente la carne, dal momento che il sangue fu riservato per segnare gli stipiti delle porte e sfuggire così alla furia dell'angelo sterminatore; di Gesù nuovo agnello Pasquale, invece, non solo si mangia la carne, ma si beve anche il sangue. E qui, il mormorio dei Giudei diviene scontro aperto e aspro, più di quanto già non lo fosse. Per il popolo ebraico, lo sappiamo bene, il sangue era il principio della vita, per cui bere il sangue di qualsiasi essere vivente significava appropriarsi indebitamente della sua vita, di cui Dio solo è depositario e proprietario. Per questo motivo, il sangue degli animali era versato in libagione nei sacrifici, ma non era assunto dall'uomo cibandosene. Bere il sangue degli esseri viventi era considerato un sacrilegio. Immaginiamoci cosa potesse rappresentare per i Giudei l'affermazione di Gesù "bere il mio sangue". Solo dopo due millenni di cristianesimo oggi noi riusciamo, nell'ottica dell'Eucaristia e della comunione con Dio, a comprendere appieno questa affermazione: proprio perché è Dio il depositario della vita, proprio perché è lui proprietario del sangue versato in sacrificio, la possibilità che Gesù ci offre di essere salvi mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue ci è data esattamente perché è lui stesso, in virtù della sua totale comunione con Dio Padre, che dispone del suo corpo, del suo sangue, della sua vita. E ne dispone in maniera estrema, fino alla totale assimilazione della nostra carne con la sua carne, del nostro sangue con il suo sangue. La sua carne (che, lo ricordiamo, indica la natura umana nella sua più totale debolezza) viene da noi assimilata "mangiandola" (il verbo greco dice proprio "masticandola"), ovvero in quel modo così umano, quello del cibo in funzione del vivere, che non può lasciare spazio a margini, che non può che essere totalizzante: in definitiva, Gesù vuole che "ce lo mangiamo e ce lo beviamo tutto", senza riserve, perché solo così la nostra debole natura umana entra in totale comunione con la sua natura umana, la quale, per la sua figliolanza divina, contiene in sé non solo tutta l'umanità, ma anche tutta la divinità. È il mistero più bello dell'Eucaristia: nel gesto più umano, più quotidiano e più terraterra che conosciamo, ossia il mangiare, è nascosto quanto di più divino possiamo ottenere, la comunione con Dio. "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me". Il discorso di Gesù sul Pane di vita termina qui, non ha più altro da aggiungere, e davvero penso che sia sufficiente così. Ora a noi la scelta: gli crediamo o no? Stiamo con lui o no? Appuntamento a domenica prossima. |