Omelia (06-09-2015) |
don Luciano Cantini |
Spalàncati Passando per Sidòne Il Racconto di Marco ci tramanda alcune notizie sul percorso di Gesù, tortuoso e abbastanza improbabile, che si mantiene comunque al di fuori della Palestina, in terra pagana. Questo ci aiuta a dare una lettura simbolica al racconto che ai primi lettori di Marco doveva sembrare piuttosto evidente. La guarigione raccontata sembra così toccare ogni uomo che vive fuori dall'Israele che, in quanto pagano, non ascolta la Parola di Dio ed è come un sordo, neppure è capace di parlare con Dio, non perché muto, ma impedito nel linguaggio (mogilalon, malparlante, balbuziente). Siamo messi di fronte al simbolo della condizione propria di ogni uomo e donna della terra che non è malato né posseduto da un demonio, come altri personaggi del vangelo; la sua condizione è talmente considerata naturale che non è chiesta una guarigione da una malattia riconosciuta come tale, piuttosto si chiede di imporgli la mano, un gesto di benedizione (cfr. Mc 10,16) capace far sentire la vicinanza, un contatto fisico che rivela sollecitudine, perché anche la sua povera vita sia avvolta dalla misericordia divina. Gli portarono un sordomuto Il sordomuto non è impedito a muoversi eppure il vangelo ci dice che lo portarono. Il problema più grave sembra essere il mancato riconoscimento della propria situazione... chi è otturato tanto da non ascoltare non percepisce neppure la necessità dell'ascolto e la bellezza della Parola. Non è difficile il paragone anche con tanti battezzati che sono lontani dall'ascolto della Parola di Dio. Probabilmente non si è neppure accorto della presenza di Gesù che gli è passato vicino da sentire la necessità di incontrarlo, sono altri che si prendono la briga di portarlo. È un compito prezioso quello di portare fratelli e sorelle dal Signore che non si limita a accompagnare ma diventa intercessione, infatti lo pregarono (il verbo paràkaleô suggerisce l'idea di supplica fatta con insistenza). Mentre si descrive la condizione di ogni uomo, sordo e muto alla Parola, si delinea anche il compito degli uomini di buona volontà che fanno quanto è possibile per accompagnare le persone al Signore e pregare per loro, con affetto e delicatezza. È una azione sinergica suggerita dal plurale del verbo, portarono, capace di accogliere e accompagnare, di fare la stessa strada (sinodo) tanto da inventare nuove vie di comunicazione capaci di convincere e sostenere nel cammino. Lo prese in disparte Gesù lo porta lontano dalla folla, per sottolineare il significato della relazione personale. La folla confonde e spesso impedisce, nella folla le voci si sovrappongono e perdono chiarezza, la necessità di urlare rende ancora più evidente la difficoltà di parola; la persona perde la propria capacità di valutare, segue le correnti, la mediazione degli altri riducono la coscienza. Gesù propone una azione di decontaminazione, di purificazione della coscienza, di una libertà ritrovata. Un compito importante ha oggi la Chiesa in un tempo in cui la globalizzazione si trasforma in massificazione, il pensiero unico annebbia la libertà di coscienza. Essere in disparte non significa non guardare, non ascoltare e non dire, quanto non lasciarsi avvolgere e uniformare dal mondo: sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto (Mc 4.19) «Effatà» La minuziosa descrizione dei gesti raccontata da Marco non ha pari in altre situazioni in cui il miracolo compiuto sembra essere più complesso: Gesù non sfiora le orecchie e le labbra del sordomuto, anzi vi mette il dito quasi a perforare fisicamente l'orecchio chiuso, mette la sua saliva sulla lingua, guarda al cielo sospirando e rivolgendosi alla persona nella sua globalità gli comanda «spalàncati». I segni molteplici e laboriosi, esprimono bene la volontà del Signore di reintegrare l'uomo nella sua pienezza, la loro spettacolarizzazione ci raccontano quanto sia complessa l'apertura alla comunicazione, alla relazione con gli altri e con Dio. Ma il rito, ogni rito, non è fine a se stesso come a volte paiono certe nostre celebrazioni, il fine ultimo è quello di spalancarsi alla realtà che ci circonda, entrare in relazione, prendere il coraggio della parola che nasce dall'ascolto, liberarsi dalla indifferenza, dall'opportunismo e dal tacere vigliacco o dal mal parlare egoistico, gretto e ingeneroso. Occorre spalancare il cuore per osservare la realtà che ci circonda, i segni della vita e della comunione, sconfinare nell'immensità dell'amore di Dio. |