Omelia (13-09-2015) |
mons. Roberto Brunelli |
Non un annunciatore ma l'annunciato E' facile dire (o illudersi) di avere la fede: se essa non si traduce in opere, in atti di concreta carità, non è vera fede. Lo scrive l'apostolo Giacomo nella sua lettera (2,14-18) dalla quale è tratta la seconda lettura di oggi, mentre il vangelo (Marco 8,27-36) riprende un tema già presente nel brano di domenica scorsa: Gesù intende tutelare il segreto intorno alla sua vera identità. Egli è in cammino, e intanto prepara gli apostoli ai non facili futuri eventi relativi alla sua persona. In proposito, esordisce con una domanda: "Chi sono io, secondo la gente?" Dalle risposte apprendiamo che egli era visto come uno dei profeti redivivo: Giovanni Battista, da poco fatto decapitare da Erode, o il popolarissimo Elia, per gli ebrei l'emblema stesso dei profeti antichi, o qualcun altro dei grandi uomini mandati da Dio al suo popolo. "E secondo voi, chi sono io?" incalza Gesù, al quale risponde di slancio l'impulsivo Pietro: "Tu sei il Cristo". Gesù non lo smentisce, perché, chissà quanto consapevolmente, Pietro ha centrato la verità; ma raccomanda di non dirlo a nessuno. Almeno per il momento, possiamo supporre che intendesse. Perché non dirlo, se era la verità? Perché il termine poteva dare adito a fraintendimenti, mentre egli voleva preparare il popolo a comprenderlo nel suo senso autentico. Quello che sarebbe diventato nei secoli l'altro nome di Gesù, suo esclusivo e inscindibile dal primo - lo chiamiamo infatti, e solo lui, Gesù Cristo - è la traduzione greca del termine Messia, con cui gli ebrei designavano il misterioso personaggio annunciato dai profeti come il futuro liberatore del suo popolo. Le vicende storiche del popolo d'Israele, da secoli dominato da altri (Assiri, Babilonesi, Siriani, Egiziani, Romani), avevano portato a interpretare le profezie come relative a un Messia liberatore politico, in grado di restaurare l'indipendenza dell'antico regno di Davide e Salomone. Non era facile per Gesù far comprendere che l'autentico messaggio dei profeti intendeva una liberazione d'altro genere, più profondo e tutto spirituale; per questo non voleva, rivelandosi di colpo come il Cristo, il Messia atteso, suscitare false speranze e così vanificare la sua opera. Di qui la raccomandazione del silenzio. Per gli apostoli, tuttavia, era venuta l'ora di avviarli a capire, spiegando di non essere un nuovo profeta del Messia venturo, ma proprio il Messia: non un annunciatore ma l'annunciato, e però venuto a fare tutt'altro che una rivoluzione politica. Ecco perché "cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo" (è l'espressione con cui Gesù designava se stesso) "doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere". Altro che liberare Israele dalla dominazione straniera: i suoi avversari erano piuttosto i capi del suo stesso popolo, i quali avrebbero cercato addirittura di eliminarlo. Un discorso inaccettabile, per chi aveva del Messia l'idea che si è detto. Ecco allora un nuovo intervento dell'impulsivo Pietro, il quale "lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo". Pietro non riflette, non cerca di capire e semmai cooperare con il Maestro, ma dà per buona l'opinione corrente e vuole impedire quanto può contrastarla: se egli è il Messia, non deve dire quelle cose! La reazione di Gesù è severissima ("Va' dietro a me, Satana") ma con una motivazione illuminante per tutti e sempre: "Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Pensare secondo Dio: per un uomo, per un cristiano, questa dovrebbe essere la maggiore aspirazione; consapevole delle grandi potenzialità ma anche dei limiti della propria intelligenza, l'uomo dovrebbe impegnarla non a cercare caparbiamente di realizzare le proprie vedute, ma a capire e attuare la volontà di Chi non sbaglia, e vuole soltanto il nostro vero, autentico bene. |