Omelia (13-09-2015) |
Agenzia SIR |
Commento su Marco 8,27-35 È la svolta. I discepoli, finalmente, riconoscono Gesù come il Salvatore. Ben presto capiranno che è il Messia sofferente. L'evangelista Marco unisce strettamente la confessione di Pietro e il presentimento della passione; fin dall'inizio c'è la domanda su chi è Gesù. Qui, a Cesarea di Filippo, è data con trasparenza la risposta: Gesù è il Figlio dell'uomo incamminato verso la croce. E da qui in avanti la croce sarà il solo tema. Cosa dicono gli uomini di Gesù? Più importante è cosa dicono i suoi, quelli che hanno ricevuto la confidenza del Regno di Dio. La professione di Pietro - Tu sei il Cristo - è la prima voce umana che riconosce e proclama Gesù come il liberatore atteso. Non è ancora la fede nella sua divinità. Forse è questo il motivo della proibizione di Gesù di non parlarne a nessuno prima che venga compresa la croce, la sofferenza, il rifiuto. Lo stesso avvertimento lo darà dopo la Trasfigurazione e durante l'ultima salita a Gerusalemme. Gesù sa di andare incontro ad una morte violenta, ma sa che la sua morte porta salvezza e rientra nel disegno d'amore del Padre, non è l'esito dei rifiuti e delle opposizioni degli uomini. Come più si avvicina la passione, così si rafforza anche l'annuncio della Risurrezione. Questa è la riuscita finale, non la morte. Il destino è la salvezza, ma questa passa attraverso la croce. A questa luminosità fa da contrasto l'opacità dell'incomprensione dei discepoli ad ogni predizione della passione; così è di Pietro, poi di quelli che discutono su chi sia il più grande, fino a quella di Giovanni e Giacomo che competono per il primo posto. Gesù è solo. Né le folle, né i discepoli lo capiscono. Tocca a Gesù spiegare in che senso è il Cristo, l'Unto di Dio, il Messia. La sostanza è capire che egli deve soffrire e morire. Il Figlio dell'uomo più che il glorioso giudice escatologico richiama la figura del Servo sofferente. Più che il rimprovero - non solo a Pietro, ma anche agli altri - contano le istruzioni per i discepoli: rinnegare se stessi sta ad indicare una vita vissuta in termini di donazione, non di possesso. Commento a cura di don Angelo Sceppacerca |