Omelia (13-09-2015) |
don Michele Cerutti |
Commento su Marco 8,27-35 Quando Gesù si trova ad operare in Galilea molti si chiedevano chi fosse questo uomo che faceva parlare i muti e udire ai sordi, vedere ai ciechi e scacciar demoni. Nel villaggio di Nazareth c'era chi si limitava a dire è il figlio del carpentiere Giuseppe. Marco, raccontandoci l'episodio in cui Gesù chiede ai suoi discepoli ma la gente cosa dice di me, vuole mostrare agli uditori del suo tempo, che la confusione, che dopo la morte di Gesù è avvenuta sul tracciare l'identikit della sua figura esisteva ai tempi del Gesù storico. Marco scrive il suo Vangelo a metà del I secolo. In quel periodo si avevano tante visioni: Docetismo che sosteneva che in Cristo non esiste la natura umana con la negazione della sofferenza. Il Cerinitianesimo che aveva come maestro Cerinto che considerava Gesù come un profeta e Cristo sarebbe disceso su di lui sottoforma di colomba al momento del battesimo e gli fa conoscere Dio come Padre e risale in cielo prima della passione. L'adozionismo si è diffuso con gli ebioniti e accentua l'umanità di Cristo e si vede in lui uno strumento storico contingente subordinato alla potenza del Padre. Le discussioni sulla figura di Gesù proseguono fino al IV secolo quando con il Concilio di Nicea vengono delimitati i confini della sua figura. Nicea afferma che Gesù è consustanziale e coeterno con il Padre smontando ogni altra dottrina sulla figura del Cristo. La figura di Gesù si comprende quando, come il Messia stesso ci insegna, ci si interroga su chi sono io per te. Il rischio nel considerare solo chi è Gesù è di farlo diventare un personaggio della cultura, un grande campione di etica come direbbe Nitsche ma niente di più. Marco nel suo Vangelo è preoccupato a indicare l'identità del discepolo. Tutti noi in forza del battesimo siamo discepoli e tutti dobbiamo interpellarci ma chi è Gesù per me? Pietro il primo della classe risponde in maniera precisa: Tu sei il Cristo il Figlio di Dio. Gesù lo rimprovera e così rimprovera gli altri apostoli che erano con Lui. Gesù li sprona ad una sequela perché è solo con l'esperienza personale con Lui si riesce a comprendere le verità dottrinali. Il cristianesimo non è dottrina è incontro con Cristo nella preghiera e nella vita di tutti i giorni a contatto con i fratelli. I discepoli devono conoscerlo nell'ambito della Pasqua che passa attraverso la sofferenza. Teniamo conto del contesto culturale che vivono i discepoli al tempo di Gesù. Essi vivono in realtà geografiche circondate da culture che hanno la visione di divinità potenti che non possono soffrire. Gesù smonta loro questa visione e parla loro di prendere la croce e seguirlo. In quel tempo, la croce era la pena di morte che l'Impero romano attribuiva agli emarginati. Prendere la croce e seguire Gesù voleva dire, in definitiva, accettare di essere emarginato dal sistema ingiusto che legittimava l'ingiustizia. Il cristiano non può accettare la vita comoda. Non una croce per se stessa, il dolore per il dolore. Ma la croce come segno rivelatore di una vita data, offerta, spesa per gli altri. È il «per» che qualifica la croce come cristiana. La croce non come segno da ostentare per difendere uno spazio religioso, una nazione, ma da vivere in una logica di accoglienza e di servizio. La croce unisce non divide. E' il segno distintivo del cristiano che cerca di mostrare nella vita con la forza della testimonianza. Dio stessa l'ha vissuta la dimensione della Croce non l'ha proposta agli altri l'ha vissuta lui stessa dopo averla proposta. Non è un Maestro qualunque è il Dio che vive lui stesso quello che propone. Allora solo comprendendo questo passaggio dobbiamo per la Croce avere il giusto rispetto. Quante volte si entra in Chiesa e si fa quei segni di Croce che sembra più uno "scacciar mosche" che un segno di saluto nei confronti del Signore accompagnato magari da quegli inchini da "gazzella" che non hanno nessun senso. Con il segno di Croce noi bussiamo all'intimità del Signore. Crisostomo ci offre una bella pagina di riflessione: Un tempo la croce era un segno di condanna, ora invece è principio di salvezza. Essa è diventata per noi causa di innumerevoli benefici, ci ha liberato dall'errore, ha illuminato quelli che giacevano nelle tenebre, ha liberato noi che ci eravamo ribellati a Dio, ha fatto degli estranei dei familiari, ha reso vicini quanti erano lontani. Essa è la distruzione della inimicizia, la protezione della pace, il tesoro di beni innumerevoli. Grazie ad essa non andiamo più errando nel deserto, abbiamo conosciuto la vera via, non avanziamo al di fuori della via regale. Abbiamo trovato la porta, non temiamo le frecce infuocate del diavolo perché abbiamo visto la fonte. Per questo non siamo più in stato di vedovanza, abbiamo accolto lo sposo; grazie alla croce non temiamo più il lupo rapace, perché il buon pastore è in mezzo a noi. Perciò non temiamo il tiranno, siamo in attesa del Signore. Perciò facciamo festa celebrando la memoria della croce. Anche Paolo ci ordina di celebrare la festa della croce. Dice: Facciamo festa non con lievito vecchio, ma con azzimi di sincerità e di verità (1Cor., 5,8). In seguito ne spiega il motivo: Cristo nostra pasqua è stato immolato! Vedi come Paolo ordina di celebrare la festa della croce? E Cristo è stato immolato sulla croce. Dove vi è il sacrificio, là vengono annullati i peccati, là vi è la riconciliazione con il Signore, là vi sono festa e gioia. Cristo nostra Pasqua è stato immolato per noi. Dimmi: dove è stato immolato? Su un albero elevato. Nuovo è l'altare del sacrificio, poiché nuova ed eccezionale è anche la vittima. Vittima e sacerdote sono una cosa sola... Perché viene immolato fuori dalla città e fuori dalle mura? Perché tu sappia che il sacrificio è universale, perché tu sappia che l'offerta è fatta per tutta la terra, perché tu sappia che la purificazione non riguarda solo una parte ma concerne tutti". Viviamola la Croce e rispettiamola. |