Omelia (13-09-2015) |
mons. Antonio Riboldi |
Pensare secondo Dio Come è facile parlare di amore per i poveri, in relazione a ogni forma di bisogno: di casa, di lavoro, di affetto, di accoglienza. La povertà è sempre un ‘vuoto' creato da mille circostanze, nelle quali davvero potrebbe esprimersi l'amore nella sua totalità, al punto che i poveri diventano la nostra vera ricchezza e risorsa. Sempre che consideriamo felicità il dare più che l'avere; vedere vivi gli altri, anche se questo richiede la condivisione di un po' delle nostre sicurezze. Quando Gesù parlò di condivisione con noi, poveri uomini, annunciando la Sua passione e morte, scatenò la reazione immediata di Pietro che ‘lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo'. Ma Gesù ‘voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: ‘Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini'. Poi ‘convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà'". (Mc 8, 27-35) Come ha spiegato in un'udienza Papa Francesco: La logica della croce «non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell'amore e del dono di sè che porta la vita» e «entrare nella logica del Vangelo significa uscire da noi stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dai propri schemi che finiscono per chiuderci». «Spesso - ha osservato il Papa - ci accontentiamo di qualche preghiera, di qualche messa domenicale, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di uscire, siamo un po' come san Pietro, che non appena Gesù parla di dono di sè» scappa. Anche perché la condivisione espelle una volta per tutte dalla nostra coscienza il diffuso concetto di amore come elemosina o assistenzialismo, che è uno sguardo distratto o superficiale su chi ha urgente bisogno del nostro aiuto, e non è mai un guardarlo negli occhi, accogliendo la sua sofferenza e necessità al di sopra di ogni nostro interesse. Voglio riportare ancora un ricordo del mio lungo viaggio tra ‘quelli lì', come dicevamo domenica scorsa. Negli anni in cui ho vissuto nelle baracche con i miei parrocchiani nel Belice, dopo il terremoto, l'amore mi ha portato a fare tutto quel poco che un sacerdote poteva fare. Quante volte pubblicamente con ogni energia ed un coraggio che ancora oggi non mi so spiegare, tentavo di far capire che non chiedevamo compassione o altro: volevamo solidarietà, comprensione e condivisione. Ma spesso era un discorso che cadeva nel vuoto. Ricordo una domenica, in cui ero stato invitato in una città del Centro Italia, per far conoscere il dramma della mia gente. Coglievo un senso di curiosità, un'attesa di chissà quali filippiche contro questo o quello, e di fronte ad un discorso di chiamata in causa di ciascuno, fu evidente una certa delusione e anche un po' di dissenso. Alla fine l'appello fu interpretato al solito modo: un giro di cestini per l'elemosina, il cui gruzzolo fu posto poi tra le mie mani. Mi sentìi ribellare il cuore pieno di sdegno. Come se mi avessero offeso nella mia dignità e con me tutta la mia gente. Non avevo chiesto soldi. Avevo offerto di soffrire con chi soffriva. Quale fede era quella che con qualche monetina pacificava la propria coscienza? Dov'era la carità? Mi vennero in mente, e da allora mi sono sempre restate in cuore come metro di giudizio per la mia fede, le parole di Giacomo che la Chiesa ci offre oggi: "A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi', ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: ‘Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede'". (Gc. 2, 14-18) C'è una conversione da compiere ogni giorno in questo senso nelle nostre comunità cristiane. Dobbiamo tornare ad avere la capacità di abbattere le robuste pareti che ci siamo costruiti per difendere la nostra tranquillità, in modo da diventare ‘case aperte', ‘mense imbandite' per chi passa e ‘ha fame, sete, è ignudo', o fugge da tragedie immani di guerra, o semplicemente non sa a chi affidare le proprie lacrime. È vero, la nostra vita diventerà una casa messa sottosopra da tanti, fino a perdere le nostre formalità, la nostra compostezza, ma avremo da Dio la ricompensa che Lui dona a chi ha saputo amarlo nel fratello. Come avverte Papa Francesco nella Evangeli gaudium: meglio «una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Senza contare che le nostre comunità diventeranno finalmente credibili, vere testimonianze dell'amore che Dio ha per gli uomini e non avremo più motivo di parlare di... crisi. Non resta che chiedere a Dio il dono della carità a tutto tondo, che sappia capire, accogliere tutti, con un cuore simile ad una mensa, a cui tutti possono sedersi. Lo chiediamo per l'intercessione della Vergine Maria, di cui, in questa settimana, abbiamo celebrato la nascita. Il suo sì totale e incondizionato a Dio ‘ha permesso' la venuta del Figlio Gesù, che ci ha portato la salvezza e ci ha aperto orizzonti di eternità, in questa nostra povera ‘valle di lacrime'. Chiediamo alla Mamma celeste di guidarci e sostenerci, di educarci, come ha fatto con il piccolo Gesù, a confidare sempre nel Padre e ‘fare la Sua volontà', che non è altro che amare Lui e coloro che pone sulla nostra strada come fratelli, ‘con tutto il cuore e la mente'. |