Omelia (20-09-2015) |
mons. Roberto Brunelli |
Il piccolo Aylan e tutti gli altri Abbiamo tutti negli occhi le foto strazianti del piccolo Aylan, diventato simbolo delle tragedie che accompagnano l'esodo in corso verso l'Europa. Ma possiamo, quell'innocente, considerarlo anche il simbolo delle violenze d'ogni sorta cui sono sottoposti in tutto il mondo tanti bambini: e a questa immagine si contrappone, nel vangelo di oggi (Marco 9,30-37), quella tenerissima di Gesù che abbraccia un bambino e ne fa l'emblema dell'atteggiamento che gli adulti dovrebbero assumere anche verso di loro. Il suo insegnamento viene a conclusione di un episodio sintomatico. Ancora, come domenica scorsa, troviamo Gesù intento a istruire gli apostoli, preparandoli agli eventi prossimi, così diversi da quelli che essi si attendevano dal Messia. Eccolo allora ribadire che lui, "il Figlio dell'uomo, viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà". Tuttavia la greve umanità di coloro, che pure lui stesso ha scelto come primi collaboratori, insiste nell'aggrapparsi all'opinione corrente di un Messia politico, il quale, cacciati i Romani occupanti, restaurerà l'antico regno d'Israele. Sono così radicati in questa prospettiva, che invece di badare alle parole del Messia discutono tra loro su chi sia il più grande, e dunque a chi di loro, nel futuro regno, toccherà il posto più importante. Pazientemente il Maestro torna a spiegare, accompagnando le parole con un gesto esemplificativo. "Disse loro: Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato". I bambini allora erano privi di rilevanza giuridica e sociale; perciò un bambino si prestava ad essere il simbolo degli emarginati, dei tanti che "non contano". In quel bambino, Gesù li abbraccia tutti, e invita a fare altrettanto. Quale cambio di prospettiva! Il più grande è chi serve, chi accoglie nella propria mente e nel proprio cuore anzitutto quanti non godono di privilegi, quanti nella società stanno un passo (o due, o tre, e spesso di più) dietro agli altri. Nel mondo nuovo che Gesù instaura, l'importanza di una persona non si misura dal suo potere, dal suo danaro, dal suo successo, ma dalla disponibilità, dall'impegno a fare giustizia, ad alleviare le condizioni dei meno fortunati. Così ha fatto lui, e dopo di lui una schiera di uomini e donne che hanno cercato di imitarlo. In virtù del loro impegno, questo rivoluzionario principio in duemila anni ha cambiato il mondo; oggi formalmente tutti, e non solo i cristiani, condannano certi atteggiamenti e criteri di vita che un tempo erano ritenuti normali (la discriminazione delle donne, la pedofilia, la schiavitù, il dispotismo eccetera); almeno a parole, oggi tutti riconoscono che la fame nel mondo è frutto di un'ingiustizia da sanare, ed è pacifico che chi è investito di autorità non dovrebbe operare per l'utile proprio ma per il bene comune. Insomma, sull'antico criterio dello sfruttare gli altri a proprio vantaggio (o, quando andava bene, dell'indifferenza per le condizioni altrui) oggi trionfa il criterio prettamente cristiano del servire. Trionfa negli enunciati delle leggi e nelle dichiarazioni pubbliche; se però si guarda ai fatti, si rischia di deprimersi costatando la loro difformità rispetto ai principi. Ne deriva l'impegno, per ogni uomo che si riconosca tale, ad adeguare il proprio comportamento ai principi che un'onesta intelligenza riconosce giusti. L'impegno vale in particolare per i cristiani, se vogliono ritenersi seguaci del Figlio di Dio, il quale è venuto tra noi, come ha dichiarato lui stesso (Marco 10,45), non per essere servito ma per servire. Sino a dare la vita. |