Omelia (20-09-2015) |
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COMMENTO ALLE LETTURE Commento a cura di Ottavio De Bertolis «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sono parole a noi molto familiari, diventate quasi degli slogan nel mondo ecclesiastico; le cantiamo nelle liturgie e ci sentiamo buoni quando le diciamo. E così anche per queste accade, come del resto per le altre parole, che più sono ripetute e meno si comprendono in quel che dicono o intendono dire davvero, cioè sul serio, e se ne sente meno il vero mordente. Con il risultato che tutti diciamo che, se comandiamo, è per servire, e che tutto quel che facciamo è, appunto, per servire, o che il servizio è la stessa polare del nostro agire di ogni giorno. Ma servire chi? Cristo Signore o noi stessi, i nostri progetti, le nostre ambizioni, i nostri propositi? Serviamo gli altri, o ci serviamo degli altri? Serviamo Dio, o usiamo Lui per i nostri scopi? Viviamo, lavoriamo, ci impegniamo ad maiorem Dei gloriam, o ad maiorem mei gloriam? Ci si dimentica spesso che essere ultimo, vuol dire, appunto, essere ultimo: cioè che ti passano davanti tutti, ma proprio tutti. Il che significa: non solo quelli bravi, quelli che meritano di passarti avanti, quelli ai quali tu sei disposto a cedere volentieri il posto, ma anche quelli che non lo meritano, gli incapaci, i mediocri, i raccomandati. Noi non siamo così spocchiosi o arroganti da volere occupare il primo posto, siamo ben disposti a riconoscere che altri se lo meritano di più. E fin qui va bene, è giusto. Ma non possiamo stravolgere la realtà in modo tale da persuaderci che il nostro posto sarebbe proprio l'ultimo: questo sì che fa problema. Essere ultimo, cioè in secondo ordine, rispetto a chi non si merita affatto di essere primo? Devo essere il servitore anche di questi? Ultimo anche rispetto a questi? Di più: ti passano davanti i disonesti, quelli dei quali si parla nella prima lettura, che mettono alla prova l'onestà del giusto con violenze di vario genere, fisiche, morali o psicologiche. Forse che tutto questo non è moneta corrente nella vita di ogni giorno? Forse che non ci è già successo, o abbiamo visto accadere a qualcuno, in qualche modo, di essere stati condannati ad una morte infame? In senso morale, naturalmente, non necessariamente fisico: morti, cioè tolti di mezzo, messi da parte, sorpassati da persone senza scrupoli. E, per giunta, privi di quell'onore, di quella lode, di quel riconoscimento che sarebbe stato giusto che ci venisse dato. Quante volte le persone oneste e capaci, quelle che appunto la scrittura chiama «giusti», sperimentano questo. Allora, vale la pena continuare in una rettitudine che nessuno apprezza? E che Dio sembra non ricompensare, almeno sul momento? E' vero quel che dice Giacomo, nella sua lettera: «uccidete, siete invidiosi e non riuscite ad ottenere; combattete e fate guerra». Sembra una cronaca di qualche ufficio o di molti lavori quotidiani in molti ambienti: uccidere, infatti, significa mors tua vita mea, anche quando non giunge alla morte fisica, cioè abbassare te per innalzare me, appunto per invidia, cioè perché penso che quello che hai tu in realtà spetti a me, e che mi sia stato rubato per qualche ingiusto motivo. Ti penso come un rivale, un nemico, della mia carriera, del mio ruolo, dei miei affetti, anche se non lo sei. Pochi si confessano d'invidia, e generalmente è mal compresa: in realtà essa è una delle molle più potenti delle azioni degli uomini, disgraziatamente, e consiste nel ritenere che un altro abbia quello che devo avere io, e che lo abbia ingiustamente, cioè che lo abbia rubato, e che sarebbe giusto riprenderglielo. Per questo molte volte la vita assomiglia ad una guerra di tutti contro tutti, per l'affermazione di se stessi. La soluzione è l'eliminazione: se Caino riteneva che Abele fosse gradito a Dio, questo significa che doveva ammazzarlo, per restare solo lui. Cioè lui, solo. Se abbiamo il coraggio di fare una volta sola un vero esame di coscienza, vedremmo chiaramente come l'invidia sia una delle radici più profonde dello spirito di rivalità che appesta la nostra vita. Ed è determinata dalla percezione di un'ingiustizia. O da un senso di inferiorità, che può pacificarsi solo nel non avere confronti, o nel confrontarsi solo con chi vale meno. In questo senso, i due discepoli del vangelo discutevano di chi fosse il più grande. Cioè, è ovvio, io. In realtà, capiamo quindi che le letture di questa domenica ci pongono davanti ad un problema profondissimo, e non solo teorico: come mi pongo davanti all'ingiustizia, alla rivalità, alla guerra che mi viene fatta. E per questo la risposta data da Gesù appare così assurda: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno». Tanto più che, come sappiamo sarà ucciso proprio per invidia, per l'entusiasmo e il seguito che aveva: il suo successo faceva sfigurare gli altri, appunto gli scribi e i farisei, che si trovavano così non solo con un concorrente, ma con uno che minava i fondamenti di quello che insegnavano con i suoi discorsi e le sue parole. Ma allora perché ti consegni? Perché non fai valere le tue ragioni? Oppure, visto che sono obiettivamente più forti di te, perché non smussi gli angoli di quel che dici, e trovi con loro un modo di convivere? Magari c'è spazio per te e per loro, e, come si suol dire, se non puoi avere uno come amico, fattelo alleato: potresti diventare un rabbino anche tu, con un'interpretazione originale e interessante della Parola di Dio, proprio come loro, anzi, meglio di loro. E così morire a novant'anni nel tuo letto, anziché tirare tanto la corda, che poi tu stesso capisci come va a finire. Perché i più forti sono loro. Gesù, ponendo davanti ai discepoli un bambino, si identifica con lui: come un bambino non ha nessuno che lo difenda, perché è piccolo e debole, e la sua vita dipenda da un padre, che lo accolga, lo tuteli, lo nutra, lo difenda, così si fa Lui con Dio, Padre suo. E così dirà «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», poiché chi si affida, perché può solo affidarsi, è il bambino. Il figlio dell'uomo, appunto. E così il Figlio di Dio. Gesù non respinge l'ingiustizia, l'invidia, l'iniquità: la accoglie in sé, fisicamente: altrove dice «estinguendo in se stesso l'inimicizia». L'immagine fisica è il colpo di lancia che trafigge il suo petto: quel colpo dice l'iniquità del mondo, tutti i giusti schiacciati, dal giusto Abele ai poveri cristi feriti in tutta la storia. La loro vicenda umana è riassunta nel Giusto, l'unico tale, ucciso da noi sulla croce: secondo le sue parole, il soccorso gli verrà, e infatti gli è venuto. Dal Padre: la risurrezione, i cieli nuovi e la terra nuova, che sono non solo nell'aldilà, ma anche nell'al di qua, quel modo di vivere da figli di Dio, nella verità e nella giustizia della fede, in quella«sapienza che viene dall'alto», e non dal mondo, e ben diversa dalla sua furberia, che è «pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti», della quale abbiamo letto in Giacomo, quella che è chiamata anche «vita eterna», quella che è veramente vita e che si può vivere fin da subito. Noi possiamo rinunciare ad avere le cose che ci spetterebbero, la lode che ci spetterebbe, i riconoscimenti che meriteremmo, non perché siamo dei superuomini, o perché possiamo dimostrare agli altri che si può vivere senza molte delle cose che la gente considera necessarie, ma perché Gesù ci basta. Dio solo basta, diceva santa Teresa, e imparare e farcelo bastare è tutta la vita spirituale. Gli adulti hanno bisogno di tante cose; al bambino basta un papà. Il punto è che noi non siamo più bambini: diventarlo di nuovo, questa è la fatica. Quella fiducia in Dio, quell'abbandono a Lui, la stessa preghiera fiduciosa è un dono dell'infanzia, che di solito non le sopravvive: una volta usciti dall'infanzia, bisogna faticare molto per rientrarvi, come dopo una lunga notte sorge una nuova aurora. E così forse è inevitabile attraversare la notte oscura dl buio dell'umana ingiustizia, del freddo dell'ostilità immeritata, della stessa preghiera che sembra inascoltata, per vedere sorgere una nuova luce, quando, finalmente fatti poveri, Dio solo ci basta. Per questo, credo, il salmo dice: «corrodi come tarlo i suoi tesori». Dio, anche servendosi dell'umana ingiustizia, ci insegna quel che a noi sembra impensabile: la beatitudine di essere, appunto, servi e non padroni, ultimi, e non primi. Ma poiché essere ultimi può sembrare un parolone troppo grosso, accontentiamoci almeno di essere secondi, se già siamo primi, o terzi, se ora secondi a qualcuno: accontentiamoci almeno di un passo indietro. Gli ultimi, del resto, sono così ultimi che non sanno nemmeno di esserlo. Hanno dimenticato se stessi. Non sono più loro a vivere, ma Cristo vive in loro. Di loro nessuno parla. |