Omelia (01-11-2002) |
mons. Antonio Riboldi |
Il momento della verità Mi chiedeva un giorno una mamma, con un sottile cenno di rimprovero, più che di stupore: "Perché voi preti oggi sembra evitiate di parlare della morte, che è sicuramente il momento più importante della vita di tutti? Dovreste ricordarcelo ogni giorno, perché ogni momento può essere il nostro momento". Ed aveva ragione quella donna. Se pensassimo di più a quell'unico, irripetibile momento, la grande verità che contiene e "il dopo" che è quanto più interessa a tutti, forse saremmo più saggi, o daremmo alla nostra vita quella risposta che Dio chiede, la santità. E' per questo motivo che la Chiesa, nel mese di Novembre, come a chiusura dell'anno liturgico, che è il riproporre il mistero pasquale di Cristo e nostro far festa per tutti i santi, commemora tutti i morti. E di morti ne abbiamo tutti da ricordare; sono i più numerosi della nostra famiglia: e forse abbiamo tra di loro anche i santi comuni, quelli che sono presso Dio, a vivere una vita felice senza fine. Sarà il momento in cui udremo dalla bocca di Dio: "Venite benedetti del Padre mio, nel regno che è stato preparato per voi, fin dalla creazione del mondo. Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare..." oppure: "Andate via da me maledetti nel fuoco eterno, che Dio ha preparato per il diavolo e per i suoi simili. Perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare... Tutte le volte avete fatto questo a uno di questi piccoli lo avete fatto a me". (Mt. 25, 31-46). Quando ero ragazzo, entrava nella educazione alla vita di fede, che ci impartivano le nostre mamme, quella che era definita: "Preparazione ad una buona morte", tratta dalle massime eterne di S. Alfonso de' Liguori. E faceva davvero impressione quella descrizione della morte, ma nello stesso tempo ammoniva sulla serietà della vita. Già, la vita. Nella mente di Dio, che ce ne ha fatto prezioso dono, il perché di questo dono aveva un significato preciso, quello di essere partecipi un giorno della sua felicità eterna. Non poteva certamente il Padre crearci come per uno scherzo, ossia come fossimo un giocattolo da consumarsi interamente nell'arco breve o lungo della esistenza. Darci la vita, nel cuore del Padre, è farci partecipi di ciò che Lui è. Ai suoi occhi questa vita terrena altro non poteva e non deve essere che un cammino, un pellegrinaggio con un compito preciso, la santità, che Gesù indica nella parabola, citata sopra, del giudizio universale, nella vita vissuta per amore. Non può essere la vita una passeggiata nel nulla o peggio ancora un perdersi dietro cose futili o dannose. Vivere, ai Suoi occhi, è rispondere continuamente al Suo amore con il nostro amore, che è fare sempre la sua volontà: camminare davanti al Suo sguardo che ci illumina, ci accompagna, ci esorta, ci dà forza. E' come un camminare con i piedi a terra, tra un prossimo da amare come Gesù l'ha amato, ma con la mente sempre rivolta al cielo, senza farsi sporcare dal mondo. E' davvero la difficile arte del camminare provvisoriamente sulla terra, ma con l'animo in cielo, proteso verso l'eternità. La morte allora diventa l'incontro con quel Padre che ci ha cercato, seguito, amato per tutta la vita. Dovrebbe essere il momento più importante e bello, direi atteso, per chi veramente ama e vive già qui l'eternità. S. Paolo, scrivendo ai Filippesi dal carcere, diceva: "Per me vivere è Cristo, morire è un guadagno. Ma se la mia vita può ancora essere utile al mio lavoro di apostolo, non so che cosa scegliere. Sono spinto da opposti desideri: da una parte desidero lasciare questa vita per essere con Cristo, e ciò sarebbe per me la cosa migliore: dall'altra, è molto più utile per voi che io continui a vivere" (Fil. 1,21-25). Sono i sentimenti dei santi, che ancora oggi sono tra noi e vorremmo essere tutti. Chi di noi non ha fatto un salto di gioia nell'apprendere che, essendo stato accertato dalla Congregazione dei santi, la veridicità del miracolo compiuto da Madre Teresa di Calcutta, si sono aperte per lei, a soli 5 anni dalla sua morte, le porte della beatificazione? I potenti della terra, quando le conferirono il premio Nobel, ebbero a riconoscere la sua grandezza, dicendo: "Questa è la luce che avvolge e fortifica l'umanità, noi siamo piccola cosa, che non sappiamo essere "grandi" e tanto meno essere "luce"". Ho avuto modo di stare con lei in due o tre convegni. Non finivo mai di guardare quella minuscola donna, che sembrava non conoscesse neppure il peso della vita e del mondo. Era tutto amore, come se amando "il mio Gesù", come affermava, fosse tutta nel cielo, facendoci sentire tutti ben poca cosa. Nello stesso tempo ci aiutava a ritrovare quell'essere luce dell'eternità, gettando alle spalle quello stupido nutrirsi di nulla, che rende davvero opachi. E chi di noi non ricorda i giorni che precedettero la morte di Papa Giovanni XXXIII, ora sugli altari. Piazza S. Pietro era affollata in continua preghiera, come a chiedere a Dio di lasciarci un santo, che era la presenza dell'amore di Dio, visibile, tra noi. E la sua morte, come quella di Paolo VI, fu davvero non una liturgia funebre, ma la festa dei santi: una liturgia di gloria. Davvero davanti alla morte dei santi, viene spontaneo sulle labbra recitare non "l'eterno riposo dona a lui, o Signore", ma il Gloria al Padre". Davanti a queste liturgie di gloria e di santità, appare il vero volto della vita sulla terra, un continuo camminare verso il Padre, spargendo di speranza il nostro pellegrinaggio. In un convento di clausura, ogni volta una suora, che ha vissuta l'intera vita sempre e solo con Dio, torna al Padre, le campane suonano a festa. Fu chiesto alla superiora il perché di queste campane a festa: "Noi, spose di Cristo, siamo come le vergini in continua attesa che arrivi lo sposo: e, quando arriva, è festa, grande festa. Ci vestiamo di bianco come per le nozze e riempiamo di gioia tutta la liturgia". Ma, viene da chiederci, in questo mese di santi e di morti, guardando alla spensieratezza di tanti, simili alle vergini stolte, è facile suonare a festa le campane? Bisognerebbe allora tornare a vedere il giorno del nostro ritorno al Padre, come il passo, più che della morte, di Dio che ci invita alle sue nozze. E sarebbe la vita, una vita da santi. Purtroppo visitando i cimiteri dove riposano le salme dei nostri cari, troppe volte prevale un malinteso sfoggio di esteriorità, che se da una parte mostrano il nostro accorato ricordo, dall'altra, quando manca la parte più importante, ossia i suffragi, la carità, nulla giova alla comunione che ci lega con loro. I nostri cari, per il mistero della resurrezione, sono sempre vicini a noi e da noi attendono non solo dolore, ma amore che si fa preghiera. Gesù a Maria, che le dava la notizia della morte di Lazzaro suo amico: "se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto", risponde: "Io sono la resurrezione e la vita, credi tu?" E lo stesso dice a noi. Visitiamo con amore i nostri cari, con il giusto dolore cristiano, che è segno di amore, ma con la fede che fa dire: "Ci vedremo da santi in Paradiso". |