Omelia (25-10-2015) |
Michele Antonio Corona |
Con la guarigione di Bartimeo si chiude la "sezione della strada" iniziata subito dopo il miracolo graduale in favore del cieco a Betsaida (8,22-26). I brani che abbiamo ascoltato nelle ultime domeniche si trovano all'interno di questa grande inclusione dettata da due interventi sulla cecità. Domenica scorsa il vangelo ci mostrava il brano appena precedente a quello odierno in cui i figli di Zebedeo chiedevano di stare seduti affianco al re della gloria. Qui, è un cieco ad esser seduto affianco alla strada. Di là erano i due fratelli arrivisti a chiedere «Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che chiederemo». Qui, è Gesù a rivolgere un domanda simile al cieco: «Che cosa vuoi che ti faccia?». Ancora, là si chiede di poter star seduti; qui, il cieco balza in piedi alla chiamata del Maestro. Di là il Signore deve spiegare la nuova economia del suo regno legata a servizio e passione; qui, al cieco non deve dire nulla se non: «Va' (non vieni!), la tua fede ti ha salvato». È evidente che i due brani sono intimamente legati e si completano a vicenda. In entrambi i casi ci si sta riferendo alla caratteristica tipica che deve avere il discepolo di questo particolare Maestro. Quegli non può scegliere di sedersi, poiché quella è la posizione di chi vuole essere servito come i principi e i capi. Il discepolo, ad imitazione del Maestro, sta in piedi e, come Bartimeo guarito, si mette a seguirlo per la via. Il figlio di Timeo chiede l'elemosina ai margini del sentiero, cioè in una situazione di emarginazione dalle relazioni sociali e dal viavai comunitario. All'inizio del racconto sembra che neppure il cammino di Gesù lo possa toccare. Eppure, quella folla chiassosa e quasi anonima, induce involontariamente il cieco ad urlare. I figli di Zebedeo, ciechi nel cuore e nelle intenzioni, usano la lingua per chiedere privilegi; Bartimeo, cieco nel fisico, apre la bocca per invocare il Maestro. Il suo chiedere non è in ordine alla prevaricazione altrui, ma ha come obiettivo essere integrato nella comunità e poter seguire colui che cammina per la strada. Il cieco attribuisce a Gesù il titolo regale e messianico di "Figlio di Davide", che il Maestro non riferisce ma a sé e non rifiuta. Era la professione di fede sull'identità di Gesù come Messia. Tuttavia, essa era legata alla logica della regalità e del potere. Gesù, invece, riferisce a sé il titolo di "Figlio dell'uomo" mutuato da Dn 7. Esso indica una figura regale che non passa per troni o regni, ma che ha il suo posto nella gloria dopo che passa per sofferenza, umiliazione e morte. Gesù, infatti, si attribuisce questo titolo ogni qualvolta parla della propria passione e del dono di sé «in riscatto per molti». I due titoli, apparentemente opposti, rappresentano invece il binomio essenziale per comprendere Gesù Nazareno: non esiste regalità senza servizio, nessun trono senza calice e battesimo, nessuna guarigione senza invocazione di fede, nessun mistero di gloria e risurrezione senza il passaggio obbligato attraverso passione e morte. Gesù sceglie di essere "Figlio di Davide" attraverso la via del "Figlio dell'uomo". La catechesi imposta ai discepoli e la chiamata a Bartimeo evidenziano che Gesù non tiene neppure questo aspetto come «tesoro geloso» da non condividere. Anzi, al contrario, annuncia che la strada che egli percorre deve diventare tale anche per il discepolo, per ogni discepolo, per chiunque voglia riacquistare la vista e, abbandonato il mantello, si metta alla sequela del Maestro. Dopo questo episodio, l'evangelista annoterà che il drappello di discepoli e folla è giunto ormai alle porte di Gerusalemme, città in cui il "figlio dell'uomo" deve compiere il motivo per cui è venuto: «servire e non essere servito e dare la vita in riscatto per molti». Il vangelo di Giovanni evidenzierà tutto questo con due immagini folgoranti: da una parte, l'azione di Gesù che lava i piedi dei discepoli come un servo che si alza e si mette a servire e, dall'altra, la croce è il vero trono da cui il Cristo regna ed ottiene la gloria. In effetti, cecità e incomprensione sono intimamente connesse anche in noi, discepoli del terzo millennio. Chiediamo: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» |