Omelia (25-10-2015) |
mons. Roberto Brunelli |
Agire, anzi pensare come farebbe lui Larga parte dei vangeli è costituita dal resoconto dell'attività taumaturgica di Gesù, chiara espressione da un lato della sua divinità (chi può compiere miracoli, se non Dio?) e dall'altro della sua speciale attenzione a chi si trova in difficoltà. A volte i vangeli riassumono tale attività, riferendo collettivamente che nel tal posto, o in una certa circostanza, egli guarì molti storpi, sordomuti, ciechi, lebbrosi etc. In altre pagine invece i vangeli si soffermano a narrare singoli episodi, talora anche, almeno all'apparenza, ripetendosi. Ma non è così, perché ogni volta varia il contesto, variano i particolari, con l'effetto di dare alla vicenda una sua propria fisionomia, un suo speciale significato. Lo esemplifica il brano odierno (Marco 10,46-52), a prima vista non diverso da altri: la guarigione di un cieco, che qui presenta più di una singolarità. E' inusuale, per cominciare, che del beneficato si riferisca il nome (Bartimeo, che significa figlio di Timeo), precisando che si tratta di un mendicante di Gerico, il quale, sentendo che stava passando Gesù, gli chiede aiuto, chiamandolo a gran voce: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!" Figlio, cioè discendente, del grande re Davide: attribuirgli questo titolo significava riconoscerlo come il Messia, il salvatore promesso; rivolgersi a lui non perché restaurasse l'antico regno (come tutti ritenevano fosse il compito del Messia) ma per chiedergli aiuto nella sua personale sventura, significa che il cieco aveva capito Gesù molto meglio dei suoi conterranei. Radicati nella loro concezione del Messia, gli abitanti di Gerico che attorniano Gesù non ammettono un suo attardarsi a risolvere un singolo caso, grave per il diretto interessato ma del tutto marginale nel piano grandioso cui ritengono egli debba dedicarsi: per questo cercano di zittire il povero Bartimeo. Non Gesù, il quale anzi si ferma, lo fa' chiamare, lo risana e lo congeda sottolineando la ragione del suo intervento: "Va', la tua fede ti ha salvato". Lo congeda: ma l'interessato non se ne va; anzi, altro particolare inconsueto, "lo seguiva lungo la strada". Proprio questo particolare ha suggerito, a tanti che nei secoli hanno commentato l'episodio, di leggerlo anche in chiave simbolica, come uno specchio della vita di chiunque diventi cristiano e da cristiano intenda regolarsi. L'uomo, creato da Dio ma offuscato dal peccato, spiritualmente è cieco, e della sua menomazione può guarire soltanto con la fede che lo porta a invocare il "Figlio di Davide", il Salvatore. Una volta guarito, poi, per non tornare alla condizione precedente deve seguire Gesù lungo la strada della vita. Ecco: la "sequela Christi" (così l'hanno chiamata i santi e i teologi), cioè l'andare dietro Gesù, è lo stile di vita proprio di chi da Cristo prende il nome di cristiano. Se poi ci si chiede che significhi, come si concretizzi l'andare dietro Gesù, la risposta è chiara: significa riconoscere lui come maestro e salvatore, come guida dei nostri passi, come meta del nostro cammino. Significa imitare lui; nelle varie circostanze della vita, comportarsi come lui. In proposito può sorgere il dubbio che sia impossibile, perché da allora il mondo è cambiato: lui non aveva l'automobile né la televisione, non navigava in internet, non doveva affrontare i vantaggi e i rischi del mondo globalizzato. E' vero, ma a ben guardare non sono cambiate per nulla le dinamiche di fondo: oggi come allora gli uomini aspirano alla felicità, e ciascuno continua a trattare i propri simili o con egoismo o con amore. E proprio di queste dinamiche perenni egli ha parlato, è su questo che ci ha lasciato se stesso come modello. Vivere da cristiani dunque significa chiedersi ogni giorno, ogni momento: se lui fosse qui, ora, al posto mio, farebbe ciò che io sto per fare? Direbbe ciò che io sto per dire? Penserebbe quello che penso io? Se la risposta è no, è ovvio che chi deve cambiare non è lui. |