Omelia (01-11-2015) |
Michele Antonio Corona |
Per la felice coincidenza della XXXI domenica del tempo ordinario e la solennità di tutti i Santi il ciclo di Marco viene interrotto per offrire al credente una splendente pagina di Matteo. Viene presentata la prospettiva delle beatitudini con l'accento proprio del primo vangelo. Matteo ha declinato il discorso del Maestro alla terza plurale (essi) secondo la mentalità giudaica, di cui è rappresentante. Non si tratta di un elitario "beati noi", né un più diretto "beati voi", come fa Luca, ma "Beati i...". In questo modo la comunità di Matteo non esclude nessuno dalla prospettiva della beatitudine, in quanto coinvolge tutti coloro che si riconoscono in quella situazione vitale. Le beatitudini non sono in nessun modo una ricetta etica per il cristiano, nel senso che non "bisogna fare qualcosa" per essere beati. La tentazione viene quando si parla di misericordiosi, di miti, di operatori di pace; ma essa risulta più difficile nel momento in cui si legge perseguitati, nel pianto... Ma allora se non bisogna adoperarsi per far parte di una di quelle categorie, come si è beati? Il discorso vuole evidenziare la molteplicità di condizione in cui sperimentare la beatitudine. Non bisogna essere perseguitati per essere beati, ma quella situazione tragica e drammatica non esclude la beatitudine; anzi, potrebbe esserne la culla germinale. Le difficoltà, i dolori, le sofferenze che spesso generano pianto e lamento non sono luoghi reietti da Dio e destinati in modo ineluttabile al fallimento, ma il podio da cui poter sperimentare il dono della beatitudine. La chiave di lettura più proficua ed evangelicamente corretta risulta essere la dimensione del dono. Il dono della felicità (questo si intende col termine ebraico e aramaico: 'ashrey) è offerto a chi vuole avere occhi attenti e orecchie pronte a percepire il buon annuncio presente in ogni situazione e per ogni persona. In una società e in una teologia, come quelle coeve a Gesù, in cui benessere significava benedizione di Dio, il Maestro capovolge radicalmente la prospettiva aprendo irrimediabilmente a tutti la possibilità di entrare nella dinamica della felicità. La seconda lettura, tratta dalla prima lettera di Giovanni, amplifica il discorso evangelico attraverso lo spettro dell'amore. Quel Dio, Padre, che offre la beatitudine, non ha sdegnato di amare l'uomo rendendolo suo figlio fin da subito. Il Cristo non ha voluto tenere per sé neppure questo privilegio di figliolanza, ma lo ha pienamente condiviso con l'uomo, con ogni uomo. Il figlio di una persona ricca o di un grande industriale ci tiene al fatto di avere un esclusivo legame di sangue col padre, a differenza di eventuali soci, consiglieri, amministratori delegati. Questi possono essere anche ottimi consulenti e avere la fiducia del capo, ma mai potranno chiamarlo padre. Gesù, Figlio amato, ha reso ogni uomo capace di chiamare Dio come Padre e sentirsene figlio. Cercare il volto del Signore, come ci fa cantare il salmo, è la caratteristica propria del figlio e non dello schiavo. Solo chi riconosce il volto misericordioso e paterno di Dio non si stanca di incrociare lo sguardo e di cercarlo senza sosta. La prima lettura, tratta dalla grande visione dell'Apocalisse, mostra in filigrana la rivelazione evangelica secondo il più tipico marchio apocalittico. "Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua". La salvezza non è data ai pochi o ai molti (interpretato sconsideratamente in senso letterale), ma abbraccia tutti coloro che hanno desiderato essere felici, essere beati, realizzare la propria vita a partire dalla parola del Signore. E chi non ha ancora ricevuto l'annuncio evangelico? Una domanda che si pone molto spesso anche tra i cristiani. Il vangelo non è opera di uomo, né tantomeno appannaggio completo della comunità credente. Il Vangelo è guida della Chiesa e non il contrario; pertanto, è Lui a muoversi felicemente in alvei che a nessuno è dato conoscere né arginare. La figura di tanti "beati" noti e ignoti ci ricorda la chiamata comune alla santità, che consiste nel sentirsi figli amati di un Dio che non smette un attimo di amarci con la discrezione tipica di un amorevole Padre. |