Omelia (01-11-2015) |
don Alberto Brignoli |
Beati, cioè Santi Che i "Beati voi" del Vangelo di Matteo si riferisca ai Santi, non ci piove. E il fatto stesso che da secoli si legga questo testo nella Solennità di Tutti i Santi, ne è la conferma. E che si possano dire "Beati", e perciò "Santi" i poveri in spirito, i miti, gli operatori di pace, i puri di cuore e i misericordiosi, mi pare altrettanto scontato; magari non è così scontato che a questa categoria dei Beati o dei Santi possano appartenere anche persone che non condividono gli ideali del cristianesimo, eppure oggi non fatichiamo a credere che sia così. Questi atteggiamenti, infatti, sono tipici dell'uomo che ha attitudini filantropiche, oppure ascetiche, oppure che si lascia guidare da principi etici di grande caratura morale, e per avere queste caratteristiche pare non ci sia bisogno di essere iscritti a un gruppo religioso più o meno definito. Lo si è per natura, lo si può essere perché da quando si ha l'uso di ragione si inizia a valutare ciò che è bene e ciò che è male e di conseguenza a perseguire il bene, pensando magari più al benessere degli altri che al proprio. Miti, operatori di pace, puri di cuore e misericordiosi, quindi, se vivono nella semplicità, o meglio nella povertà di spirito, senza alcun dubbio possono essere detti "beati" e quindi "santi". Ma...come la mettiamo con le altre tre beatitudini, che non sono certo legate ad atteggiamenti considerati eticamente rilevanti, anzi, si riferiscono a situazioni di disagio che spesso, a loro volta, generano azioni e stili di vita deviati? Considerare e proclamare "beati", cioè "santi" coloro che sono nella disperazione e nella prova perché "afflitti" o perché "assetati e affamati di giustizia" (e magari pure "perseguitati" da una giustizia che si rivela ingiusta) è quantomeno inusuale, se non addirittura irrispettoso della loro situazione, buoni o cattivi che essi siano. Di certo, questo concetto di beatitudine-santità rompe una serie di schemi e di mentalità che al tempo di Gesù pervadevano l'ambiente giudaico e che a volte ritroviamo ancora anche nella nostra mentalità. Su tutti, lo schema legato al concetto di retribuzione, quello dei buoni che vengono premiati e dei cattivi che vengono castigati, con l'accettazione - nella mentalità giudaica - anche del ragionamento contrario, ossia quello per cui non solo vieni premiato se sei buono, ma addirittura il fatto che la vita ti abbia premiato e benedetto con ogni dono è il segno esteriore ed evidente a tutti della tua bontà e santità di vita. Dicasi lo stesso per il male: il disagio, la sofferenza che tu vivi (manifestata ad esempio dalla malattia) è segno esteriore ed evidente di un castigo ricevuto in conseguenza dei tuoi errori. Questa idea del concetto di retribuzione riceve alcuni duri già colpi dall'esperienza dei libri sapienziali dell'Antico Testamento, su tutti la vicenda di Giobbe. Ma è con l'inizio del Discorso della Montagna, considerato la Nuova Legge data dal Nuovo Mosè al Nuovo Israele, che questo schema retributivo legato alla santità salta definitivamente: beati e santi non sono più quelli che possiedono ogni bene, che sono stati benedetti con ogni grazia da Dio e che sono stati premiati perché attenutisi scrupolosamente all'osservanza delle leggi e dei precetti della religione. Beati e santi sono coloro che la vita non ha affatto benedetti, che la società ha emarginati, che la pubblica morale dei benpensanti ha condannato solo perché assetati di una giustizia che poi tanto giusta non è, visto che premia sempre i soliti buoni e condanna sempre i soliti disgraziati. E beati e santi sono anche coloro che, con il loro comportamento e le loro azioni, contribuiscono a farsi prossimi a queste situazioni di profondo disagio: i misericordiosi, gli operatori di pace, i miti e poveri in spirito, i puri di cuore. E come se non bastasse, a sconvolgere quest'assodata idea di santità legata alla retribuzione, arriva un'altra sottile ma profonda caratteristica presente nella proclamazione delle Beatitudini di Gesù: nessuna di esse, infatti, fa riferimento alla dimensione religiosa. Nessuno dei "beati" di Gesù è esplicitamente uomo o donna di religione; nessuno dei "beati" di Gesù è esplicitamente uomo o donna di Dio; nessuno dei "beati" di Gesù è esplicitamente uomo o donna legato al culto o al tempio o ai precetti della religione. Non c'è una sola beatitudine in questo senso, al punto che la beatitudine-santità proclamata da Gesù potrebbe essere - e, di fatto, lo è - applicabile a ogni uomo e a ogni donna di buona volontà, indipendentemente e a prescindere dalla sua appartenenza religiosa. Proprio come la moltitudine della visione di Giovanni nell'Apocalisse, immensa, incalcolabile, fatta di uomini e donne appartenenti a ogni "nazione, tribù, popolo e lingua"...e a nessuna religione esplicitamente professata... Hanno solo un "merito": essere passati attraverso la grande tribolazione. È questo che li rende beati e santi. Ogni schema rispetto alla santità è ormai saltato. Non più uomini e donne benedetti da Dio perché irreprensibili e perfetti osservatori delle norme e dei precetti, ma uomini e donne resi beati da un Dio che guarda alla loro afflizione, alle loro sofferenze, alla loro profonda umanità, e a chi - per loro - spende una vita fatta di mitezza, di ricerca della pace, di pietà, di misericordia. Un Dio così, forse, può restare stretto a chi con lui stabilisce un rapporto di "dare-avere", e si aspetta premi per ciò che fa o castighi (leggeri, possibilmente...) per ciò che non fa. Ma la santità è un'altra cosa. Non è l'apertura di un libro di "dare-avere" con Dio; è fidarsi di un Dio che ama la vita, e che ama renderla felice, beata, santa, anche dove e quando la sofferenza e la morte vorrebbero prendere il sopravvento. Un Dio così riempie il cuore di gioia e di speranza, perché allora, davvero, possiamo essere tutti santi. |