Omelia (29-11-2015)
don Alberto Brignoli
A testa alta

"Andare in giro a testa alta": è un'espressione che sentiamo spesso usare, in maniera molto differenziata, tanto differenziata che a volte può assumere significati quasi opposti tra di loro. "A testa alta" fondamentalmente significa "senza vergognarsi", convinti di non avere fatto nulla di male per cui dover abbassare lo sguardo di fronte alle persone; spesso, però, indica anche un atteggiamento di eccessiva fierezza, di altezzosità, di superiorità, che porta certe persone a guardare gli altri dall'alto in basso, dall'alto della propria posizione sociale o della propria importanza verso i livelli bassi dove si ritiene viva un'umanità indegna di essere chiamata tale.

Ma "andare in giro a testa alta" può anche significare ricuperare la propria dignità a fronte di situazioni, o di cose o di persone, che ce l'hanno fatta perdere e che ci hanno fatto ritenere che vivere felici e contenti fosse solo un'illusione. Sì, perché di situazioni, di cose e di persone che nella vita di ogni giorno schiacciano la testa e fanno abbassare lo sguardo, ce ne sono un'infinità. Non è poi così infrequente avere per padre un padrone, per marito un despota, per datore di lavoro uno schiavista, per amico un arrivista: e in queste situazioni, recuperare la propria dignità personale non è affatto semplice. Non sto certo parlando di atteggiamenti dal sapore medievale: stalking e mobbing sono due terminologie abbastanza recenti, e solo da poco tempo sono divenute anche terminologie che indicano colpevolezza, reato. E sono atteggiamenti che inducono chi ne è vittima ad abbassare lo sguardo, e spesso a soffrire in silenzio per evitare mali peggiori.

Ci sono poi situazioni di oppressione che impediscono a intere popolazioni di andare in giro "a testa alta", con dignità e fierezza. C'è chi opprime i suoi simili nascondendosi dietro la legittimità di una costituzione che formalmente lo protegge; chi invece li opprime con la strategia del terrore; chi, in maniera più subdola, con la suggestione del denaro. Insomma, tanto la quotidianità quanto gli eventi storici sono un susseguirsi di teste costrette a camminare con lo sguardo abbassato, teste che - a volte - rotolano fino a terra. Per non parlare, poi, di quello sguardo abbassato che è ormai di scena nelle sale d'attesa e alle fermate degli autobus, dove con estreme difficoltà riusciamo a scorgere qualcuno che distolga i propri occhi dallo schermo di uno smartphone o di un tablet: evidente segno, pure questo, di un fastidio che, pur di non incrociare il mio sguardo con quello di qualcun altro, mi porta a vivere ripiegato su me stesso e sul mio "alter ego" che stringo tra le mani.

A tutti questi uomini dal capo abbassato, a tutta questa umanità autoreferenziale, a tutta questa società che fa dell'oppressione il proprio sistema di vita e che crea oppressi senza dignità, è oggi rivolta la parola forte del Vangelo che abbiamo ascoltato: "Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". Lo diciamo già da alcune settimane: gli evangelisti, quando redigono il Vangelo con brani di questo tipo, hanno sotto gli occhi la situazione storica della caduta di Gerusalemme, che oltre a rappresentare una catastrofe umanitaria ha voluto pure segnare la fine di un sistema, il sistema religioso basato sullo strapotere del tempio e dei suoi funzionari, un sistema religioso che sottometteva e che creava dipendenza (ricordiamo la povera vedova di qualche domenica fa), un sistema religioso in cui il connubio con il potere politico faceva comodo e dava sicurezza. Certo, il crollo di questo sistema condurrà gli uomini ormai assuefatti a questo potere a "morire per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte". Chi del potere ha fatto la propria ragione di vita vedrà, nel vuoto di potere, il crollo definitivo delle proprie certezze. Ma per il discepolo, non può essere così, anzi: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina".

Il messaggio del Vangelo di oggi, allora, apparentemente così pieno di elementi angoscianti, è in realtà un messaggio di grande speranza, così come lo è tutto questo tempo di Avvento che oggi inauguriamo. L'Avvento è attesa, attesa della venuta del nostro Redentore nel Natale: e ogni attesa è anche motivo di grande speranza. La lingua spagnola ha addirittura la fortuna di far coincidere attesa e speranza in un unico verbo: esperar. Ogni attesa, per quanto ansiosa e incerta possa essere, è in sé ricca di speranza, perché si spera che ciò che si attende sia incommensurabilmente più grande di ciò che si soffre per ottenerlo, così come la gioia e l'attesa per un bimbo che sta per nascere caricano la futura madre di una speranza così forte che fa venire in secondo piano la sofferenza che l'attende. E qui, chiamata a generare una nuova vita, è l'umanità intera: l'umanità così spesso costretta a vivere con lo sguardo abbassato a causa di crisi economiche, di crisi geopolitiche, di crisi pseudo - religiose, di crisi di convivenza tra i popoli, di crisi familiari, di crisi esistenziali, e chi più ne ha, più ne metta.
Oggi, però, quantomeno oggi, ci si apre dinanzi un'altra prospettiva: quella di alzare lo sguardo, di contemplare un cielo che sa ancora stupirci per la sua limpidezza, di sperare che l'ombra di morte che ci circonda non sia più grande della luce che portiamo nel cuore; di assaporare la speranza che, in fondo, far parte di questa umanità non è poi così male.