Commento su Sofonia 3,14-17; Luca 3,10-18
Abbiamo già detto che prepararsi al Natale è far vedere agli altri che siamo uomini e donne di speranza, che attingiamo da chi ha già raggiunto il Bene e vuole che ogni suo figlio lo raggiunga.
Oggi la liturgia ci chiede di far vedere che siamo uomini e donne di gioia, come è possibile in un contesto storico come il nostro?
Occorre premettere che la gioia di cui si parla è un'armonia di fondo, un'armonia interiore, un'armonia di rapporti, non è la realizzazione perfetta dei nostri progetti, dei nostri sogni.
Occorre cogliere il positivo e diffonderlo intorno a noi: questo dà la gioia.
Ma in profondo questa gioia ci proviene dalla giustizia.
Che cosa ne facciamo dei nostri beni? Li consideriamo esclusivamente per i nostri interessi? Come consideriamo i nostri beni?
Gioia e giustizia sono molto collegate tra di loro: più cerchiamo di essere giusti, più condividiamo più siamo gioiosi!
SOFONIA 3, 14-17
La prima lettura è tratta da Sofonia, profeta del 600 a. C., in un momento in cui profeti, re, sacerdoti sono venuti meno al loro compito, Sofonia si rivolge verso i poveri di cuore, coloro che non si affidano alle proprie forze, ma mettono la loro fiducia in Dio.
Il motivo di gioia è che Dio abita in seno al suo popolo, combatte a favore del suo popolo, difatti dice: "Il Signore è in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura, non lasciarti cadere le braccia..gioirà per te, esulterà per te con grida di gioia."
E' il Signore stesso ad essere felice perché sarà lui stesso a rinnovarti con il suo amore!
Il Dio d'Israele non è un Dio impassibile, né una divinità corrucciata da rabbonire con preziosi sacrifici, ma è lo sposo che prova reale affetto per la sua diletta.
Sarà proprio questa gioia del Signore per Gerusalemme che la convertirà all'amore autentico per lui. Dunque la gioia a cui Gerusalemme è invitata è la gioia di una città liberata dalla paura.
LUCA 3, 10-18
Oggi il Vangelo secondo Luca, ci propone la figura di Giovanni il battista, il battezzatore.
La gente che si faceva battezzare, domanda a Giovanni: "Cosa dobbiamo fare?"
Giovanni dà tre risposte tutte relative alla giustizia.
Ci meravigliamo un po', perché normalmente noi pensiamo che la religione sia un affare privato tra noi e Dio. Pensavamo che la religione imponesse doveri di pietà, di preghiera, ma non implicasse conseguenze di tipo sociale e quindi di scelte di giustizia.
Invece per la concezione biblica questa distinzione non ha senso, perché anzi la pratica della giustizia è essenziale ad un giusto rapporto con Dio.
Il rapporto con Dio non si sviluppa con Dio, ma con i fratelli.
Il vangelo su questo è chiarissimo!
Non c'è un rapporto che viviamo con Dio che sta in cielo e un rapporto che viviamo con i fratelli sulla terra: l'unico rapporto che noi viviamo è con i fratelli, cioè viviamo il rapporto con Dio attraverso i fratelli.
L'amore a Dio e ai fratelli sono due forme dello stesso amore, espressione dell'amore di Dio in noi, che diventa dono per i fratelli.
Dice Giovanni: "Chi ha due tuniche (non dice: chi ha l'armadio pieno di vestiti) ne dia una a chi non ne ha. Chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha".
Nella nostra cultura abbiamo la convinzione che quello che abbiamo è nostro e ne possiamo fare ciò che vogliamo.
Dal punto di vista biblico è radicalmente sbagliato.
I beni della terra sono a disposizione di tutti e sono per il benessere di tutti.
Ogni ingiustizia si esprime poi in forme di violenza, di sopruso e si moltiplica il male nel mondo.
Quindi è anche per il benessere della società, dell'umanità che siamo chiamati a praticare la giustizia.
Poi ci sono altri due esempi molto concreti.
Il primo è quello dei pubblicani, cioè di coloro che raccoglievano le tasse per conto dei romani.
Venivano considerati peccatori pubblici almeno per due ragioni.
La prima era la collaborazione offerta agli oppressori, che consentiva loro di arricchirsi alle spalle del popolo. Questo era un male molto diffuso al tempo di Gesù.
Gli stessi sommi sacerdoti collaboravano con i romani, anzi, venivano eletti proprio dai romani appunto per la loro collaborazione.
Per esempio Caifa rimase sommo sacerdote per lungo tempo, fino al 37: era stato eletto dal predecessore di Pilato, Pilato lo confermò continuamente, appunto perché collaborava.
Quindi il collaborazionismo era un peccato molto diffuso in quel tempo.
I pubblicani, quindi erano considerati peccatori perché collaboratori, ma anche perché erano abitualmente ladri: o imponevano più tasse per trattenere una parte per sé, oppure chiedevano di più di quanto i romani avessero stabilito.
Ai pubblicani Giovanni chiede appunto di non chiedere di più di quanto è stato stabilito.
Ai soldati chiede di non essere violenti, di non utilizzare le armi per dei soprusi, per prendere cose che non gli appartenevano e per opprimere la gente.
Sono due criteri che possono servire anche a noi.
Chiediamoci: cosa dobbiamo fare per essere seguaci di Gesù?
Non essere violenti, che ognuno lo può adattare alla sua vita.
Ci sono molte forme di violenza, anche fine e subdola e nessuno ne è esente!
Non essere attaccati alle cose, alle persone... e anche qui qualche attaccamento ce lo abbiamo tutti, importante è vederlo!
Non strumentalizzare gli altri, non servirsi degli altri per i nostri scopi.
Si possono strumentalizzare molte situazioni in cui ci veniamo a trovare per accumulare denaro, per arricchirsi a danno degli altri.
Il messaggio fondamentale di questa liturgia è una revisione dei nostri atteggiamenti sociali.
Che cosa ne facciamo dei beni che abbiamo?
Li consideriamo solo per i nostri piaceri e i nostri gusti, per i nostri interessi?
O sappiamo che hanno una valenza anche sociale, per i poveri, per quelli che nella società non hanno i diritti che noi abbiamo?
Non è generosità, ma giustizia, anche se non è fissato da una legge.
La domanda "che fare?", dev'essere accompagnata da un'altra più fondamentale: "con quali atteggiamenti operare, quali messaggi di vita trasmettere nei rapporti?"
Se operiamo cose buone, ma con rabbia, con aggressività, con desideri possessivi, con la volontà di dominare gli altri, con desideri possessivi o per apparire, noi inquiniamo ciò che abbiamo fatto di buono e anche le soluzioni migliori saranno meschine e insufficienti.
Non è sufficiente dire: "io vado in chiesa, prego, vado alla Messa, seguo le leggi, quindi sono a posto." Occorre esprimere forme nuove di misericordia, di perdono, di accoglienza, sviluppare dinamiche di dialogo.
Quindi facciamo attenzione alla nostra volontà di apparire, alla ricerca dei nostri interessi, alla ricerca dell'approvazione, della gratificazione: inquinano le nostre buone opere, le corrompono.
Nessuno, da solo, ha la soluzione del problema, ma occorre confrontarsi insieme per individuare le nuove vie da percorrere, le scelte da compiere.
Amici, condividere è instaurare un rapporto di pace.
Se mi riconosco figlio di Dio, figlio del Bene, scopro che l'altro, anche il più disprezzato, mi è affidato come io gli sono affidato dal Padre, da cui entrambi riceviamo l'esistenza.
Perché preoccuparsi? Attingiamo alle sorgenti del Bene e condividiamo!