Omelia (27-12-2015) |
don Alberto Brignoli |
Anche nelle migliori famiglie Sapere e capire non sono la stessa cosa; conoscere e comprendere, purtroppo non sempre coincidono. Si può, infatti, essere a conoscenza di una cosa, di un fatto, anche riguardante una persona, ma ciò non significa automaticamente che comprendiamo questo fatto, e ancor meno che lo condividiamo o che siamo d'accordo con quanto vediamo accadere. Dal momento che stiamo celebrando la festa della Santa Famiglia di Nazareth, da noi cristiani invocata come modello per le nostre famiglie, proviamo ad applicare questo alla vita familiare, soprattutto nel rapporto genitori-figli. Premesso che non sempre i genitori sanno, ovvero sono al corrente, di ciò che fanno i loro figli, dandolo comunque per scontato, la comprensione e l'accettazione dei loro atteggiamenti e delle loro scelte è spesso motivo di contrasto tra le due generazioni a confronto. "So che compagnie frequenta mio figlio, e non è che mi garbino completamente, soprattutto alcuni dei suoi amici: soprattutto, non capisco cosa ci trovino a stare sulla strada tutto il sabato pomeriggio, la sera e tutta la giornata di domenica, perdendo tempo in discorsi futili e comportamenti incomprensibili"; "So che oggi la partecipazione alla vita di fede soprattutto da parte dei giovani è fortemente in crisi, ma non capisco come mai io a mio figlio ho insegnato tutti i principi della fede e lui ora non va più a messa"; "So che al cuore non si comanda, ma non capisco come mai mia figlia si sia messa insieme a un ragazzo che a detta mia non vale un fico secco"; "So che oggi la maggior parte dei giovani va a convivere prima del matrimonio e che - quando avviene - si sposano il più tardi possibile, ma non accetto il fatto che tra essi ci siano anche i miei figli, perché io non ho insegnato loro così"; "So che mio figlio deve essere libero di scegliere gli studi e la professione che desidera, ma non capisco come mai, avendo io un'attività già avviata, non debba seguire le mie orme. Quando io non ci sarò più, mi toccherà chiudere baracca e burattini!". E via di seguito... gli esempi si sprecano. E nella stragrande maggioranza delle occasioni, questo diviene motivo di tensione: se non di forti scontri, quantomeno di rabbia, da parte soprattutto dei genitori. Ebbene, stiamo tranquilli: è proprio il caso di dire che capita anche nelle migliori famiglie! Anzi, nella migliore delle famiglie! Sì, perché la Santa Famiglia di Nazareth si è "fatta carne" pure lei insieme con il Verbo di Dio; ancor meglio, possiamo dire che il "farsi carne" del Verbo ha trovato il suo habitat naturale nella profonda umanità della famiglia del falegname di Nazareth, con tutta la sua dimensione di umana debolezza, proprio come in ognuna delle nostre famiglie, né più né meno. Ed è proprio per questo che ne diviene il modello, e non l'ideale: perché l'ideale nessuna delle nostre famiglie potrà raggiungerlo, ma certamente potremo averla sempre come modello di riferimento, perché è una famiglia che ha vissuto e sperimentato tutte le debolezze e tutte le ricchezze che quotidianamente sperimentano le nostre famiglie. A partire da questa fatica di comprendere e di comprendersi tra genitori e figli, come dice uno dei versetti del brano di Vangelo che abbiamo ascoltato: "Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro". Ecco qui la distinzione tra "sapere" e "capire" a cui accennavo prima: che Maria e Giuseppe sapessero che il loro Gesù era il Figlio di Dio, il Figlio della Promessa, il Messia atteso dalle genti, non esitiamo a crederlo (con tutte le rivelazioni divine che avevano avuto, ci credo...); ma che avessero compreso cosa significasse e come questo si dovesse attuare, è tutto da dimostrare, e certamente fa parte di un cammino che anch'essa, come ogni nostra famiglia, ha dovuto intraprendere. E Luca ce lo presenta con quella sottile ironia che lo contraddistingue, attraverso alcuni particolari della sua narrazione. Finora, infatti, l'Evangelista aveva chiamato Giuseppe e Maria con i loro nomi propri: adesso, e quasi d'improvviso, li chiama con il nome comune, con quello della loro funzione, ossia "genitori", "madre" e "padre". Qui, Maria e Giuseppe escono dalla loro personalità, dalla loro individualità finora entrata in relazione con Dio, e assumono un ruolo: ed è proprio questo "ruolo" che verrà messo in crisi da Gesù, il loro figlio, che si permetterà di ricordare loro, sul muso, che ha un altro Padre a cui obbedire...con tutto il dolore che questa risposta può provocare al falegname che qui in terra lo ha "adottato" nella sua famiglia... Ma forse, l'errore di Maria e Giuseppe con il fanciullo Gesù è stato proprio quello di volerlo da subito "ingabbiare", "inscatolare" in un insieme di istituzioni, di norme e di comportamenti sociali che al Figlio di Dio, al Salvatore del mondo, certamente andavano stretti. Portarlo al tempio di Gerusalemme a dodici anni (addirittura un anno prima di quanto prescriveva la Legge), per attuare "secondo la consuetudine"...lui che butterà in aria la Legge di Mosè legata al tempio e ai suoi sacrifici; affidarlo al "clan" perché viaggiasse all'interno della carovana, del gruppo, nel quale davano per scontato che si sarebbe sentito a suo agio, al punto da non cercarlo nemmeno più per vari giorni...lui, che con il suo popolo certamente non è mai stato uno che le mandasse a dire, creandosi non poche inimicizie; rimproverarlo e volerlo catechizzare per un comportamento oggettivamente scorretto...lui, che si siede in mezzo ai capi del popolo e ai dottori della Legge e li catechizza interrogandoli e rispondendo allo stesso tempo, quasi li ritenesse ignoranti e incapaci di comprendere il volere di Dio: Maria e Giuseppe compiono con Gesù un'errata valutazione della sua personalità e delle sue aspirazioni, proprio come succede alla stragrande maggioranza delle famiglie, in cui i genitori pensano dei figli una cosa per poi viverne un'altra, a volte subendo con dolore, a volte accogliendola con meraviglia. C'è da dire, però, che la Santa Famiglia di Nazareth, soprattutto Maria, possiede un segreto, una mossa educativa vincente che può davvero diventare un modello per le nostre famiglie: quella di non sbraitare, di non reagire, di fare osservazioni ferme ma pacate, riuscendo comunque a mantenere il figlio sottomesso alla loro autorità. La mossa, in definitiva, è quella di saper "custodire tutte queste cose nel suo cuore", meditando e riflettendo su ciò che avviene - come in un mistero - nella vita dei figli. Auspichiamola e invochiamola anche per le nostre famiglie, normali tanto come quella di Nazareth: forse, allora, educare non sarà più solamente un problema. |