Omelia (08-12-2016)
don Maurizio Prandi
L'incontro, tra dono e responsabilità

(Condivido per questa Solennità, quanto abbiamo meditato insieme ai seminaristi che il giorno dell'Immacolata verranno ordinati Diaconi)

Il brano di Vangelo che ascolterete anche il giorno della vostra ordinazione diaconale (anche io ho ricevuto l'ordinazione diaconale il giorno dell'Immacolata e allora ringrazio per poterne fare insieme a voi memoria grata) ci racconta fondamentalmente di un incontro e ogni incontro che viviamo credo sia sempre un dono ed una responsabilità. Ricordo che un giorno a Milano in metropolitana insieme a don Paolo abbiamo incontrato Erri de Luca e dopo aver parlato un po' con lui e ringraziato per la sua disponibilità e cortesia lui ci ha salutato così: Grazie per l'incontro! Mi ha colpito molto questo: il pensiero più profondo che ero riuscito a fare io era "che fortuna abbiamo avuto!". Lui invece era su un livello di profondità differente. Un dono quindi gli incontri che facciamo, un dono per il quale siamo chiamati a ringraziare. Ma anche una responsabilità. E questo apparirà chiaro tra poco.


Seguo il testo allora, che all'inizio fa una annotazione temporale: nel sesto mese. Luca dicendo così pone in relazione due avvenimenti che nella loro diversità ci aiutano a capire il pensiero di Dio e le sue scelte, e investono la chiesa della quale siete chiamati e a diventare servi di una responsabilità grandissima (Dico chiesa perché la Vergine Maria è considerata immagine della chiesa).

Vengono annunciate due nascite e almeno una delle due, guardando al contesto e alle circostanze sembra avere qualcosa di straordinario: la prima viene annunciata a Gerusalemme, il luogo è addirittura il tempio, chi riceve l'annuncio è un sacerdote del tempio e il momento è il più solenne che ci possa essere: l'ora dell'offerta dell'incenso! Un credente medio, se proprio deve nascere il Messia, sarebbe certo di aver in mano abbastanza indizi per dire con certezza che quello è il contesto giusto! Invece no, la scelta di Dio è diversa: non Gerusalemme ma Nazareth, un villaggio mai nominato nella Bibbia; non la Giudea luogo dell'ortodossia ma la Galilea, terra meticcia, terra di confine, terra di mescolanza di razze e di religioni e proprio per questo, secondo i puristi della religione, non abitata da Dio; non il tempio ma una casa; non un sacerdote ma una normalissima ragazza sola in casa; non nell'ora più importante dal punto di vista liturgico e rituale, ma la quotidianità, forse quella dei lavori domestici. Mi piace tanto pensare che Dio leghi la sua storia alla piccolezza, alla fragilità, al silenzio, alla solitudine di una ragazza. Dio lega la sua storia non all'evidenza (l'offerta dell'incenso era vissuta da un grande concorso di popolo e tutti avevano capito che qualcosa era successo nel tempio dice il vangelo), ma al nascondimento: c'è soltanto Maria in casa e mi piace pensare che lei abbia potuto sperimentare che l'incontro con Dio e con la sua Parola non avviene in luoghi speciali, particolari, ma poveri ed inconsueti.


Il testo poi ci parla di un angelo, le parole che Dio rivolge a Maria sono pronunciate da un angelo; mi colpisce molto questo:

- ciò che Maria sarà d'ora in poi non nasce da lei ma da un angelo che le porta un messaggio. Forse sono giorni questi, nei quali potrete fare memoria di tutti quegli angeli che nella vostra vita hanno portato parole, messaggi, lieti annunci. Abbiamo sicuramente da ringraziare perché qualcuno ha destato in noi la capacità di essere risposta e di dare risposta. So, alla veneranda età di 51 anni, di aver ancora bisogno di angeli, di figure che mi portino un messaggio;

- ciò che Maria sarà d'ora in poi, nasce nel contesto di un incontro, di una relazione che a lei viene donata. Non c'è iniziativa da parte sua e non c'è nemmeno obbedienza ad una legge, ad una regola, a nessun personalissimo senso del dovere. Maria oggi ci dice che la prima (e forse unica) obbedienza che conosce è quella dell'ascolto. Maria obbedisce ad un incontro! In questo senso, pensando a me mi viene da dire: chissà quante occasioni ho perso nella mia vita sottovalutando l'importanza degli incontri con le persone. Maria mi dice con forza questo: la mia responsabilità, quello che sono e quello che sarò dipende dalla mia capacità ad accogliere l'iniziativa di Dio nella mia vita. Il più delle volte faccio si che siano le mie scelte, le mie idee o le mia convinzioni a dare una direzione alla mia vita e alla vita delle mie comunità e invece sono chiamato ad ascoltare le parole di un Altro, la persona di un Altro. Pensavo a me (e quindi le cose che vi dico prendetele con il beneficio dell'inventario): non sono uno che fa tutte le cose per bene, però sono sicuro che alcune cose buone le ho fatte e non sono venute da me, non sono nate da me, ma c'è stata una chiamata più forte alla quale non potevo che obbedire. Penso a quando i vescovi che ho conosciuto mi hanno affidato o piccole comunità di "quasi montagna" o mi hanno chiesto di partire per andare molto distante.


Da questo incontro vi dicevo, nasce per Maria una responsabilità: la stessa cosa accade per noi credo e la responsabilità è capacità di essere risposta per l'altro. Non mi riferisco qui soltanto al rispondere a Dio, ma anche agli uomini e donne che incontriamo: penso alla responsabilità che nasce dall'incontro con un malato, o con un povero e nella categoria povertà ci metto tante cose pensando alle differenti necessità che si presentano. Certo non si può essere risposta a tutto, ma credo non ci si debba spaventare di fronte all'enormità della missione nella quale ci immergiamo. Meglio buttarsi, tuffarsi, che chiamarsi fuori cercando tempi e spazi di sopravvivenza. Faccio un piccolo esempio (perdonate la banalità): sabato scorso mi trovavo alle fine dell'incontro con i genitori a fare un po' di bilancio della giornata fino a quel momento e per me questa parola significa essenzialmente avere la possibilità di sfogarmi con qualcuno o lamentarmi; il sabato mattina dalle 8.30 alle 11.00 è un tempo a disposizione di chi vuole parlarmi, poi c'è il catechismo delle medie, poi appena il tempo di riprendersi un attimo ripensando alla liturgia della domenica e subito il catechismo delle elementari o la catechesi con i genitori, poi la messa delle 17.00 e quella delle 18.00 e i sabati nei quali poi si quieta sono davvero pochi. Stavo facendo questo racconto ad un mio parrocchiano che mi dice: don, ma dai, non è bellissimo tutto questo? Tutti questi ragazzi, bimbi adulti che incontri? Ha ragione, è bellissimo - mi sono detto - e mi ha fatto venire in mente una riflessione che ascoltavo tempo fa e che trovo legata a quanto state per vivere: nell'incontro, negli incontri, possiamo sperimentare una sempre più alta consapevolezza di noi, carica non di orgoglio o di soddisfazione personale, ma carica di gratitudine, possiamo riconoscere la capacità di essere sposi dell'altro a cui aderiamo. Pensavo alla parola re-sponsabilità e mi dicevo che nessun esperto in etimologia riconoscerà mai che contiene anche una certa carica nuziale (la sponsabilità appunto) ma mi piace credere e pensare che sia così. Lo sapete bene: con l'ordinazione diaconale c'è un vero e proprio impegno sponsale e allora soltanto nella capacità di essere risposta all'altro ci giochiamo la nostra capacità di essere sposi, la nostra capacità di giocarci la vita, di non chiamarci fuori ma di coinvolgerci con tutte le energie che hanno gli sposi. Pensavo a questo a metà ottobre, celebrando un matrimonio tra due venezuelani e alla bellezza della formula del matrimonio in spagnolo: yo te quiero a ti y me entrego a ti ti amo, ti voglio bene, ti desidero, ti chiedo e per questo mi consegno a te, mi dono a te. Lo legavo ad una mamma, che durante la catechesi con i genitori confessava, con le parole e con il tono della voce il suo essere sfinita; leggevo nella difficoltà con i figli (molto impegnativi) con il lavoro perso dal marito, con il suo lavoro part-time una fedeltà della quale io non mi sento capace. Penso a quanto imparo dalle famiglie appunto: don, ma dove trovi il tempo e le energie? E dove lo trovano una mamma, un papà il tempo e le energie?


Nella relazione, nelle relazioni Maria ci insegna proprio questo: calarci, immergerci, immedesimarci, coinvolgerci. L'avrete già sentito tante volte: ci accusano tanti di aver scelto di fare la bella vita, non abbiamo problemi di casa, non abbiamo problemi di lavoro, non abbiamo problemi di stipendio e quindi può accadere di sedersi un po'. Appunto per questo siamo chiamati a fare della vita una vita bella, una vita donata. Ho sempre legato, in questo senso, la solennità dell'Immacolata al dono della fortezza, nel senso che quando guardo a Maria, vedo una donna, non una figura angelicata. Penso a come finisce questo brano di Vangelo; finisce molto male: dopo la gioia, dopo mille promesse di presenza di Dio, dopo il: nascerà un santo, sarà chiamato figlio di Dio, nulla è impossibile a Dio, come finisce tutto? L'angelo se ne va e Maria resta lì, sola. Sento che qui nasce Maria come donna in pienezza. Fortezza vi dicevo, per me non vuol dire semplicemente forza, ma anche radicalità e fermezza e coraggio. Chi è più forte? Ascolterete una prima lettura dove Dio interroga Adamo. E' più forte Adamo con la sua paura e il suo nascondersi, o Maria con il suo turbamento e il suo dire: Eccomi? Chi è più forte? Adamo che gioca a scaricare la responsabilità su Eva o Maria che accetta la responsabilità di una maternità che immediatamente appare qualcosa di impossibile, di troppo grande? Chi è più forte? Adamo, che scaricando addirittura su Dio la responsabilità non riconosce più in Eva un dono (diventa: la donna che tu mi hai posto a fianco), oppure Maria che accetta di fondare la propria vita sulla fragilità della parola di Dio (avvenga per me quello che hai detto)?


Dalla Vergine, e grazie all'esempio di Lei, nascerà colui che il Battista (e lo abbiamo ascoltato nel vangelo domenica scorsa), definisce come più forte di me, forte anche qui non nel senso dei muscoli, forte perché fonderà la propria vita terrena sull'umiltà, sulla fragilità, sul dono, sulla disponibilità, sul servizio, sull'accoglienza: tutti valori che, se ci pensate bene, possiamo riscontrare facilmente in Maria. La cosa più bella a mio parere è questa: che da quella storia, la storia di Adamo che ci siamo abituati a leggere come una storia di peccato, ovvero di lontananza da Dio non nasce una condanna, ma nasce la storia della Salvezza, la storia della compassione e della misericordia di Dio con gli uomini, la storia un Dio che continua a dire non temere, io sono con te: la storia della vicinanza di Dio, che in Gesù ha il suo compimento.


Gioisci Maria, il Signore è con te, non temere: che bello il saluto dell'angelo; contiene una promessa, quella della vicinanza di Dio, della sua compagnia, anticipata da una conseguenza. Sì, perché quando Dio entra nella tua vita, la conseguenza non può che essere la gioia. Sappiamo che la visita dell'angelo a Maria ha nella Visitazione la sua continuazione naturale: l'angelo anche rassicura Maria, le dice di non temere (una parola ripetuta nella Bibbia per 365 volte, come se il buon Dio ci desse l'opportunità, almeno una volta al giorno di trovare nella Scrittura la ragione della nostra pace) Maria che non potrà non partire, non potrà non mettersi in cammino per rivolgere a sua cugina le stesse parole che Dio attraverso l'angelo ha rivolto a lei: non temere, io sono con te. Chissà, forse siamo già stufi di quella parola, misericordia, che ci ha accompagnato durante tutto l'anno, ma essere capaci di "opere di misericordia" (sarete diaconi per la carità, per il servizio alle mense, al vescovo) è imparare a dire ai nostri fratelli e sorelle: Io sono con te. Se davvero sentissi rivolte anche a me quelle parole quanto sarebbe più facile dare un bicchiere d'acqua, o dare da mangiare, o vestire qualcuno, accogliere, visitare; che bello (ma anche responsabilizzante), incontrare ancora una volta nella Scrittura tracce di misericordia capaci di scrivere dentro di noi il desiderio di imitare per poter essere anche noi presenza della misericordia di Dio nella vita degli altri. Non si tratta di essere creativi ed inventarci chissà che cosa, non si tratta di essere degli eroi e compiere chissà quali imprese, può bastare essere imitatori, o copiare, semplicemente dire: sono una mezza calzetta, va bene! Ma questo lo posso fare anche io!


Gioisci, Maria! La gioia, ha anche una sorgente, una fonte. Se sono capace di gioire è perché Dio fa delle scelte, a mio parere, straordinarie. Ad esempio, quello che emerge dal vangelo e dalla Bibbia è questo: Dio sceglie la piccolezza, e la scelta della piccolezza è per me motivo di gioia!


Dove posa lo sguardo Dio? Su Nazareth e sulla Galilea, luoghi rifiutati, marginali, di confine, oggetto di pregiudizio; poserà il suo sguardo sulla piccolezza di Betlemme, sulla piccolezza di un corpo di bambino, sulla piccolezza di una ragazza poco più che adolescente, ed io, dove poso il mio sguardo? Se le preferenze di Dio sono quelle, chiare, lampanti, perché continuo a preferire le grandezze, le potenze, le sicurezze?


Ascolti il Vangelo e ti rendi conto che Dio è laddove non te lo aspetti; magari lo sai, lo hai letto tante volte nella Scrittura, che il Messia nascerà a Betlemme, lo sai come lo sapevano scribi e capi del popolo che un giorno sono stati consultati da Erode, ma ti sembra così strano che rimani fermo, non ti muovi, non vai, non ti metti in cammino. Dio, vi dicevo, è nella piccolezza; non te lo aspetti certo, ma è lì! Ricordo che Betlemme di Efrata, è una parola ebraica che significa: Betlemme, la feconda. Che bello questo: a Betlemme la tradizione ebraica abbia sempre legato la fecondità, perché significa che l'ha legata alla piccolezza: e tu Betlemme di Efrata, la piccola, la minima, la troppo piccola per poter essere messa a confronto con le altre città di Giuda. Sono fecondo allora quando sono piccolo, quando sono minimo come Betlemme, perché non sono la grandezza, la forza, la fama di Gerusalemme le cose che contano, ma conta, ovvero fa la storia chi, come Betlemme, è sempre rimasto piccolo. È un po' questo l'augurio che vi faccio per il vostro diaconato, che siate fecondi perché capaci di farvi piccoli e restare piccoli.