Omelia (25-12-2016) |
don Alberto Brignoli |
Speriamo! "Ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco". Così, con queste parole intrise di dramma e di speranza, Isaia annunciava al popolo del regno di Giuda che i giorni del governo del re Acaz, il re idolatra, infedele a Dio, incredulo, capace solo di stringere alleanze politiche e militari che portarono più volte all'assedio e alla fame in Gerusalemme, stavano per giungere a compimento, perché era finalmente nato il suo figlio primogenito, Ezechia, a cui un giorno sarebbe stato dato il regno di suo padre. Un regno che egli avrebbe retto con le caratteristiche del re saggio e fedele a Dio: "Consigliere mirabile, Padre per sempre, Principe della pace". Eppure, questo re era appena nato, era ancora solo un bambino: non avrebbe potuto ancora regnare, avrebbe dovuto crescere, come ogni bambino, lentamente, anno dopo anno, fino a raggiungere la sua piena maturità. Nel frattempo, il suolo del regno continuava a rimbombare sotto i passi delle calzature di soldato, e i mantelli dei suoi abitanti continuavano a intridersi di sangue, per le scellerate e sconsiderate scelte politiche del re, suo padre. E la storia non si ferma, perché molti anni dopo (quasi settecento) passi di soldato marciarono lungo le strade dell'impero per raggiungere gli estremi confini della terra, perché un potente - ancora un potente, sempre loro - si era fregiato del titolo di "Augusto", il "Venerabile", colui che doveva essere adorato come un Dio, e - proprio come Dio - voleva che ogni uomo e ogni donna della terra fosse a lui soggetto, con la spada e con la moneta, perché il Dio delle armi e delle monete era ritenuto (allora come oggi) invincibile, onnipotente. Così potente da permettersi di voler sapere quanti fossero i suoi sudditi, di volerli censire, uno a uno. Uomini che si credono dei; uomini che si esaltano al punto da divinizzarsi; uomini che si credono mandati da Dio, e in nome suo continuano, anche oggi, a far rimbombare la terra con i passi delle loro calzature di soldato, e a intridere di sangue non solo i loro mantelli, ma i marciapiedi delle nostre città, le sale di esposizione di una mostra di quadri, le bancarelle dei mercatini di Natale, i pianerottoli dei condomini di città, le macerie di ciò che resta di una città accumulate tra la polvere del deserto, in quella Betlemme e in quel regno di Giudea che oggi ha molti nomi, e a turno (un terribile turno, come in un giro di roulette) si chiama Berlino, Parigi, Ankara, Istanbul, Aleppo, o molto più semplicemente con il nome di uno dei quartieri periferici delle nostre città. Non abbiamo parole. Non abbiamo più parole, perché siamo rimasti senza parole. Le abbiamo sprecate per inveire contro gli assassini, e per urlare la nostra rabbia a Dio; le abbiamo sprecate per scrivere parole di fuoco sui giornali, sui social, sugli schermi ultrapiatti dei nostri smartphone, che poi alla fine, dopo qualche giorno di smarrimento, continueremo a comprare e a ricercare sempre più sofisticati, consumisticamente e indifferentemente assuefatti a una logica di male alla quale, alla fine, ci abituiamo; e non andiamo più nemmeno alla ricerca di una parola di speranza. Eppure, in una logica mai finita di uomini che si fanno Dei (o demoni?) per rendere i loro simili schiavi di questa logica di terrore, irrompe un'altra logica: quella di un Dio che si fa uomo per rendere gli uomini sempre più simili a lui, ovvero liberi, liberi da ogni paura, liberi di amare e di lasciarsi amare. E se noi di parole non ne abbiamo più, al punto che ormai comunichiamo con faccine ed emoticon, con selfie e post, lui una Parola per noi ce l'ha ancora, ed è talmente bella, sostanziosa, concreta e palpabile, che la fa "carne", la fa simile a noi, la umanizza, per dirci che, in realtà, il mondo non può finire nel crogiuolo della strategia del terrore, ma nell'esatto contrario, ovvero in quell'annuncio che apre l'unico discorso diretto di tutta la Liturgia della Parola di questa notte santa: "Non temete". In questa notte in cui, con un po' di cristiana follia, ci ritroviamo intorno a un altare nell'ora in cui di solito siamo infilati sotto il nostro caldo e morbido piumone, a chi ci grida: "Ti spavento!", noi gridiamo: "Non temere!"; a chi ci grida: "Terrore!", noi rispondiamo: "Gioia!"; a chi ci grida: "Morte!", noi gridiamo: "Vita!"; contro chi ci vuole affogare negli inferi dell'angoscia, noi leviamo il capo, e guardiamo nel più alto dei cieli, dove c'è un Dio che dona la pace non più solo agli uomini di buona volontà, ma a tutti gli uomini che egli ama. Lo sappiamo, non è facile: ma nessuno di noi torni a casa sua, questa notte, senza aver detto l'unica cosa che tutti, magari sospirando, siamo ancora capaci di dire: "Speriamo!". |