Omelia (25-12-2016) |
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COMMENTO ALLE LETTURE Commento a cura di Ottavio de Bertolis "Dio, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio": così l'Autore della Lettera agli Ebrei riassume il senso della festa di oggi. Dio parla con la parola, esprime all'esterno ciò che è in Lui rinchiuso, e tale rimarrebbe se Lui stesso non volesse aprirlo a noi: quella Parola è una persona, l'uomo Cristo Gesù. Proprio come noi ci riveliamo agli altri non solo in quello che diciamo, nelle parole che pronunciamo, ma anche in quello che facciamo, nelle nostre azioni, e, in fondo soprattutto, in quello che siamo, inteso nel senso più profondo, nella stessa nostra carne, cioè nel nostro sguardo e nell'espressione stessa del nostro corpo, così Dio si rivela certo in tutto quello che Gesù dice ed è venuto a dirci, poiché le parole che Lui ha udito dal Padre le ha rivelate a noi, ma anche nelle sue opere, che sono gesti di perdono, di guarigione, di liberazione dal male fisico e morale che ci affatica e corrode, e, soprattutto, nel suo corpo, nel corpo fisico di Gesù, in quello che una volta si chiamava "nella sua santissima umanità". Infatti "il Verbo, cioè la Parola, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi: e noi abbiamo contemplato la sua gloria": gloria del Verbo sono le parole che disse, i gesti che compì, come abbiamo detto, ma, soprattutto, quando non poté più dire o fare alcunché, la sua gloria sarà la sua care conficcata alla croce, le sue piaghe, il suo fianco trafitto, il suo cuore squarciato. Lì è racchiusa la gloria di Dio, poiché "chi vede me vede il Padre". Così oggi noi contempliamo una parola rivestita di silenzio, una parola che, pur onnipotente e capace di rigenerare il mondo per chi la accoglie, facendoci diventare figli di Dio, cioè altri Cristi, nuovi Gesù che ne proseguano la storia e la missione nel mondo, si fa piccola, nascosta: non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere, dice il profeta Isaia quando parla del servo sofferente, il Cristo nella sua passione, ma è vero anche nella sua nascita. Non nasce a Gerusalemme, nel luogo "ufficiale" del culto, non nasce in palazzi importanti, non ha per suoi testimoni sacerdoti o scribi, ma persone assolutamente marginali, dei pastori, cioè uomini sozzi e selvatici, situati al gradino più basso della società ebraica, impuri religiosamente per l'essere esposti ai tabù della legge mosaica. Le persone a Lui più care, Maria e Giuseppe, sono resi simili a lui, rivestiti della sua stessa luce che è l'umiltà, ossia il nascondimento, poiché nessuno, a parte loro, sapeva chi era davvero quel bambino, e il rifiuto: non c'era posto per loro nell'albergo, proprio come non c'è posto per Lui in quell'albergo che egli ha voluto abitare, la nostra terra, poiché "il mondo non lo ha riconosciuto". Eppure "la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno vinta", nonostante le apparenze: possiamo dire che Dio ripete la stessa parola originaria, creatrice del mondo: "sia la luce". E questa luce è entrata nel mondo e si offre al nostro ascolto: non s'impone alla nostra libertà, ma la suscita, la rende possibile, per chi vuole: "a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio". Un possibilità, non un obbligo: "figli di Dio", cioè non estranei a Lui, e nemmeno ostili, ma neanche servi o assunti a pagamento. Avremmo potuto rimanere prigionieri di un enigma: comprendere con triste meraviglia come tutta la vita e il suo travaglio sia correre lungo una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia, dice un poeta, esprimendo l'angoscia del nulla che ci circonderebbe. Ma conosciamo Dio vedendo il Figlio: ciò che è stupefacente non è tanto che Dio c'è, ma che Gesù è Dio. In quell'uomo i credenti vedono la pienezza della manifestazione storica della divinità: "Dio che molte volte e in diversi modi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti", anticipando quasi ciò che avrebbe di sé detto, ricapitolandolo in quel figlio, in quel bambino che ci è dato, ora ha parlato a noi definitivamente, cioè "ultimamente", per l'ultima volta e in pienezza. Lui è "il messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace": il termine qui non dice la pace psicologica, o la serenità che ci auguriamo tra di noi, ma traduce il termine shalom, che tutti conoscono, che dice la pienezza di ogni bene, tutto quello che si può chieder e desiderare, ciò che Paolo dirà "ogni benedizione spirituale", riversata su di noi "con ogni sapienza e intelligenza". La grandezza racchiusa nel Figlio è tale che riempie ogni vuoto, sazia ogni fame, illumina ogni ricerca, addolcisce ogni amarezza: Lui infatti è "pieno di grazia e di verità". Gesù, la sua persona ascoltata, contemplata, gustata nell'infinita ricchezza in Lui racchiusa, tira fuori da noi il meglio, come del resto si prova anche al contrario: fuori da Lui tiriamo fuori il peggio di noi, poiché disse: "chi non semina con me, disperde". Siamo figli e non servi, dicevamo: poiché abbiamo ricevuto da questa sua pienezza una nuova grazia, non più quella provvisoria della legge, cioè il dovere, ma quella definitiva, quella dell'adozione a figli. La legge ci costituiva peccatori, cioè per forza lontani da Dio: sai il dovere da fare, ma sai anche che non lo hai fatto, poiché molte cose che dovevi fare non le hai fatte, e molte cose che non dovevi fare le hai fatte. Andare a Dio per la strada della morale è fallimentare: rimane la fede. Riconosciamo che Dio ci ha tanto amato, Lui per primo: la nostra lontananza è da Lui stesso coperta attraverso il suo chinarsi su di noi, come siamo, lì dove siamo. Questa è la remissione dei peccati, il perdono del mondo, l'amore di Dio nel senso del genitivo soggettivo, l'amore che Dio ha per il mondo; di qui viene infusa in noi, da quella pienezza, l'amore di Dio, nel senso dell'amore che da noi va verso Dio, che è più grande della legge, che infatti Gesù non è venuto ad abolire ma a riempire. Cioè siamo figli come il Figlio: riceviamo da Lui il Padre, e così Lui dirà: "ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale hai amati me sia in essi, e io in loro". Siamo noi i nuovi Gesù, gli altri Gesù che Dio Padre vuole fare nascere nella storia del mondo. Lui è la via per entrare in questo. Oggi contempliamo la natività, come nel tempo ordinario contempliamo la vita, e nella quaresima la sua passione, per scegliere e desiderare per noi quel che Lui per sé ha scelto e desiderato. Così "il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme". |