Omelia (13-04-2017) |
don Alberto Brignoli |
Re in una notte di luna piena Uno dei temi che sentiremo spesso "ritornare" nelle letture, nei testi, nella liturgia e nella spiritualità di questi giorni di Pasqua sarà quello della "regalità", riferito ovviamente a Gesù Cristo. Quello che è il motivo della condanna a morte di Gesù, secondo quando ci è stato tramandato dalla storia, ovvero sedizione e tentativo di colpo di stato, con la autoproclamazione di un regno alternativo a quello dominante di Roma, è divenuto per noi credenti in Cristo motivo di professione di fede. A partire dalle vicende iniziate in una notte di luna piena, il 14 del mese di Nisan dell'anno 33 della nostra era, il cartello "Gesù di Nazareth, il Re dei Giudei" posto sulla croce del Cristo, non indica più la sentenza di un condannato a morte, bensì una delle più grandi verità di fede rivelate da Gesù stesso nei Vangeli, ossia il compimento del Regno di Dio. Gesù l'aveva inaugurato su una montagna, all'inizio della sua missione, lasciandolo in eredità ai poveri in spirito e ai perseguitati per causa della giustizia; ora il Regno trova compimento su un altro monte, il Calvario, che alla fine del Vangelo diventa il luogo della Rivelazione, luogo dove i poveri in spirito e i perseguitati per causa della giustizia trovano nel Cristo il loro Re. Non c'è Regno di Dio, se non c'è un Re disposto a regnare; non c'è regno di Dio, se accanto al Re, sul trono, non vengono messi i poveri e i perseguitati a causa della giustizia; e un solo Re, tra tutti i regni della terra, è capace di incarnare l'ideale della povertà e di soffrire a causa dell'ingiustizia. Le ingiustizie subite dal nostro Re, in questa settimana di passione, sono sotto gli occhi di tutti; non è così evidente, e soprattutto non è facile da condividere, il suo ideale di povertà. Non è facile accettare un Re che invece di stare seduto sul suo trono a dare ordini chiamando i servi con un cenno, si spoglia delle vesti regali, assume gli abiti del servo e inizia a servire i suoi sudditi con il più umile dei servizi, quello di lavare loro i piedi; non è facile accettare un Re che invece di difendere con forza i confini del proprio Regno da chi ci vuole entrare ad ogni costo, spalanca le porte del proprio cuore a tutti, veramente a tutti, in particolare ai più poveri, che non sempre sono i più buoni, purtroppo; non è facile accettare un Re che invece di promulgare leggi in beneficio del popolo e a favore dello sviluppo, dell'economia e del profitto, comanda ai suoi sudditi solamente di volersi bene, di amare, di buttarsi via per gli altri, che è l'esatto contrario della logica del risparmio e del profitto; non è facile, in definitiva, accettare di avere un servo come Re. Ed è ancora meno facile accettare che lui era Re e si è fatto servo. Ma la cosa forse più difficile da accettare è che lui da Re si è fatto servo per darci l'esempio, perché - come ci ha detto questa sera - "anche voi facciate come io ho fatto a voi". In questa suggestiva notte di luna piena, quando l'intimità di una cena di festa tra il Re e i suoi sudditi viene interrotta da spade, lance e bastoni venuti a portarci via con violenza un Re che ha agito con ogni mezzo, tranne che con la violenza, ci viene lasciato un testamento: quello di essere cittadini del Regno di Dio mettendoci a servizio gli uni degli altri. E questo, dicevo, è difficile da accettare è da vivere, perché dopo tanti secoli di cristianesimo siamo ancora alle prese con una Chiesa che non accetta di perdere i propri privilegi "regali" (e quindi anche i regali) per mettersi a servizio dei più poveri; siamo ancora alle prese con una Chiesa che prima di preoccuparsi di voler bene alle persone si preoccupa di promulgare leggi e norme che annullano il primato della coscienza del singolo fedele; siamo ancora alle prese con una Chiesa che - come diceva don Tonino Bello - ha nei suoi armadi vesti e tesori preziosi e non ha un solo grembiule, o se ce l'ha lo tira fuori solo per il giovedì santo; siamo ancora alle prese con una Chiesa dove c'è sempre qualcuno che vuole comandare, che vuol mettersi in mostra, che vuol farsi vedere, che vuol mettere il naso o il becco in tutte le questioni, prima ancora di mettersi in un umile ascolto del proprio Re, a servizio degli altri. Se vogliamo metterci in mostra, facciamolo pure, nessuno ce lo impedisce; se vogliamo comandare, avanti, nessuno cercherà di prendere il nostro posto. Sappiamo, però, che dobbiamo farlo così come ha fatto il nostro Re: il quale non aveva un trono o una tribuna dalla quale promulgare leggi o emettere sentenze, ma una croce da portarsi dietro con fatica e sofferenza, ogni giorno, fino a rimanerci definitivamente appeso, quasi fosse una sola cosa con lei. E la cosa più strana è che questo servizio reso agli altri e questa croce portata con fatica, nella logica del Regno rappresentano la gioia più grande. Ma per capirlo, occorre avere la pazienza che passi questa notte di luna piena, e poi ancora un giorno di sofferenza, e poi ancora una notte e un giorno di silenzio. E poi, ancora una volta, ci penserà il nostro Re a donarci la gioia più grande. |