Omelia (07-01-2018) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Marco 1,7-11 E con la solennità odierna, anche quest'anno il tempo di Natale è archiviato: a parte colesterolo e trigliceridi in esubero per i troppi panettoni, che cosa è rimasto di questo Natale? Il Vangelo di oggi, ci fa fare un salto di trent'anni, rispetto a quello di ieri, e ci riporta sulle rive del fiume Giordano, dove troviamo Gesù ormai adulto, in fila con i peccatori, ad aspettare il suo turno, per farsi battezzare da Giovanni. Ci fossero anche oggi le code a farsi battezzare! Alla biglietteria di un teatro, o di uno stadio, sì... alle porte della chiesa no... questione di gusti... Mah! Che tristezza! Torniamo al Vangelo: dalla versione di Marco, apprendiamo che il Signore veniva da Nazareth, verosimilmente da casa di suo padre e sua madre, e che Dio Padre pronunciò le famose parole rivolgendosi non a tutto il popolo, ma a suo Figlio soltanto. Il primo aspetto facilmente sfugge all'attenzione di un lettore poco attento: nella storia di un uomo, prima o poi, arriva il giorno in cui deve lasciare ufficialmente la famiglia di origine, per iniziare a camminare da solo, per la sua strada. I sentimenti che si avvicendano in quel giorno nel cuore del giovane sono a dir poco contrastanti: entusiasmo perché inizia una nuova vita, libero dalla tutela, e dai condizionamenti familiari, diventati ormai stretti come un paio di pantaloni di qualche taglia in meno... Ma anche tristezza e dolore; il distacco dalla famiglia non è mai facile; anche perché, dal punto di vista pratico - cucina, lavatrice etc. etc. -, restare a casa di mammà può tornare assai conveniente... Quanto alle parole pronunciate dal Padre direttamente al Figlio, esse costituiscono senza dubbio un'attestazione di stima; al tempo stesso, un mandato ufficiale a compiere la missione per la quale lo Spirito Santo lo ha ‘scortato' ad incarnarsi nel grembo di Maria. Questa pagina di Vangelo è già stata oggetto di riflessione in occasione della seconda domenica di Avvento; la dichiarazione del Battista: "Io non sono degno di chinarmi a slegare i lacci dei suoi sandali..." esprime, ridotta all'osso, l'essenza del rapporto tra i due protagonisti: il primo apre per così dire la strada al secondo; prepara l'avvento del Signore, richiamando i credenti alla penitenza e al pentimento dai peccati. Del resto, l'atto penitenziale è il modo migliore per propiziare e celebrare l'incontro con Cristo; non a caso, ogni santa Messa si apre con la richiesta di perdono, il Confiteor: il cuore si dispone così all'ascolto della Parola di Dio e alla comunione eucaristica; approfitto della circostanza per ricordare a tutti che l'atto penitenziale è efficace a chiedere e ottenere il perdono dei peccati non gravi, quelli che cioè non obbligano al sacramento della riconciliazione, perché incrinano, ma non distruggono il cosiddetto stato di Grazia, necessario a presentarsi all'altare. Naturalmente, anche l'atto penitenziale deve essere celebrato, cioè vissuto con le necessarie condizioni personali, non come la solita tiritera recitata a memoria, distrattamente, senza la partecipazione della mente e del cuore... Ah, questa liturgia! dolenti note..... Non è il momento per parlare della Messa; ora dobbiamo celebrare la Messa. Impariamo a distinguere il momento in cui si riflette su un fatto, rispetto al fatto in quanto vissuto e celebrato. Mi permetto di richiamare questa distinzione, perché troppo spesso ci si illude di pregare, ma in realtà si parla solo della preghiera... Altro è riflettere su Dio, altro è pregarlo. Torniamo per l'ultima volta ai guadi del Giordano e contempliamo Gesù che esce dall'acqua e vede lo Spirito Santo discendere su di lui come una colomba: non manca nessuno; il Figlio riceve il battesimo, il Padre gli parla e lo Spirito lo riveste di forza. E di questa forza, Gesù avrà un gran bisogno, per resistere alle tentazioni di satana, nel deserto, dove lo stesso Spirito Santo lo avrebbe spinto violentemente, appena ricevuto il battesimo. Il secondo evangelista non si dilunga a descrivere il dialogo tra Gesù e il diavolo; Matteo e Luca ne parlano diffusamente, al cap. 4 del loro Vangelo. Lo scrittore francese Eric Emmanuel Schmitt, nel suo romanzo "Il Vangelo secondo Pilato" (ed. San Paolo 2002), immagina il Signore, nel deserto, alle prese con quelle maledette tentazioni, "tutte le tentazioni del mondo", come le chiama Hans Urs von Balthasar. Lo so, è solo un romanzo... ma ve lo propongo lo stesso... fatene l'uso che credete: "Dovevo trascorrere nel deserto una quarantesima notte. Quella fu la notte di tutte le inversioni. Ciò che mi sembrava chiaro, mi diventava oscuro. Là dove avevo visto il bene, scorgevo il male. Dove avevo creduto di identificare un dovere, sospettavo ormai la presenza della vanità, della presunzione, dell'arroganza fatale! Come avevo potuto credere di essere in rapporto con Dio? Non era una forma di pazzia? Come avevo potuto avere la sensazione di saper distinguere il giusto dall'ingiusto? Non era un'illusione, la mia? Come avevo potuto arrogarmi il compito di parlare in nome di Dio? Non era protervia? Uscito dal deserto, non stavo per imboccare la via dell'impostura, rischiando di far precipitare gli altri nel mio inganno? Non ho mai ricevuto risposta a queste mie domande. Il mattino del quarantesimo giorno, semplicemente, ho scommesso. Ho fatto la scommessa di credere che le mie cadute, le mie gravi meditazioni, mi conducessero a Dio e non a Satana. Ho fatto la scommessa di credere che avevo qualcosa di buono da fare. Ho fatto la scommessa di credere in me stesso...". |