Omelia (14-01-2018) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Dio, vocazione e verità Due episodi soltanto apparentemente simili quelli che riguardano Samuele da una parte e i discepoli di Cristo dall'altra. Nel primo caso infatti, si tratta di un fanciullo che dimora nel tempio del Signore, il cui sacerdote è Eli, che sente nottetempo di essere chiamato e dopo aver frainteso la provenienza di quella voce, si accorge che in realtà è una Parola. Essa non emette suoni storpiati, ma pronuncia il suo nome: Samuele, il cui significato in ebraico è (guarda caso) "Il suo nome è Dio". Dio insomma lo chiama e lo predispone ad essere profeta e giudice. Diventerà famoso soprattutto perché da lui dipenderà la scelta del primo re d'Israele, Saul. E' Dio che prende l'iniziativa per primo su questo fanciullo, manifestando se stesso, mostrando la sua fiducia nonostante la sua giovane età, confidando nel suo operato futuro, quindi chiamandolo e indirizzandolo. Nella situazione di cui al brano evangelico odierno invece avviene che siano i discepoli di Giovanni a chiedere a Gesù di permettere loro maggiore confidenza, familiarità, spontaneità nei rapporti, al punto da domandargli: Signore, dove abiti? Lui si era accorto che essi "cercavano" qualcosa camminandogli dietro e avevano domandato "Che cosa cercate?" Non "Chi cercate" ma esattamente "che cosa", ossia "qual è la realtà a cui andate dietro e dalla quale chiedete di essere soddisfatti. Forse i discepoli di Giovanni tentavano di acquisire una ricchezza materiale? Volevano una certezza in fatto di salvezza, di spiritualità? O forse il perdono dei peccati poco prima preannunciato dal Battista? Niente di tutto questo, vogliono solamente sapere dove Gesù dimora. E Gesù li asseconda, concedendo la sua disponibilità. In un'altra circostanza, durante la missione dalla Samaria a Gerusalemme, a uno sconosciuto che dimostra piena propensione a seguirlo dovunque egli vada, Gesù risponderà in modo differente: "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli i loro nidi, ma il figlio dell'Uomo non ha dove posare il capo", probabilmente perché aveva visto in lui una velleità piuttosto che una decisione radicata ed entusiasta. Qui invece Gesù si accorge che i discepoli di Giovanni sono determinati, intendono entrare in relazione con lui e non accontentarsi di verità effimere e passeggere o di qualsiasi altro espediente. Vivere Cristo è per loro d'importanza peculiare e ha la precedenza su qualsiasi altro desiderio o su qualsiasi altra prospettiva. Non chiedono a Gesù il perdono dei peccati confessati nel battesimo di Giovanni (che avrebbe potuto dare solo il Messia) ma vivono la realtà di Gesù come l'Agnello che toglie il peccato del mondo", che è la verità che salva dal peccato e rende liberi. Come dirà poi Paolo, la fede viene dall'annuncio e forse in questa circostanza i due discepoli corrispondono ad un annuncio, quello del Cristo Messia e Salvatore, con la loro integrità di vita visto che decidono di restare dove Gesù dimora e sono "le quattro del pomeriggio", il tempo cioè della ripresa, della forza e della decisione. Dicevamo che fra la prima Lettura e il Vangelo vi sono delle differenze, ma il realtà il filo conduttore seppure sottile e sotteso, è unico. Mentre infatti noi cerchiamo la verità nell'effimero e nell'illusorio, mentre ci arrabattiamo a procacciare la felicità a volte nell'ebrezza di un momento o nelle chimere propinateci dalla moda di turno e dalla propaganda, l'unico che prende l'iniziativa di chiamarci è Dio. Lui solo ci conosce fino in fondo, padroneggiando il nostro stato d'animo e scrutando i nostri sentieri d'intimità profonda e di conseguenza Lui solo può chiamarci e definire un progetto su di noi. Come nel caso di Samuele, Dio mostra a ciascuno il senso della propria vita, la dimensione, il progetto da perseguire e da realizzare. In altre parole, solo Dio chiama e ciò che a noi corrisponde non è in realtà nostra scelta ma vocazione. Ma indipendentemente dallo specifico della nostra chiamata, Dio vuole in primo luogo proporsi a noi come la verità assoluta e indispensabile della quale vivere e nella quale confidare. Vuole insomma instaurare un rapporto filiale e spontaneo con noi nel suo Figlio Gesù Cristo Via. Verità e Vita. E Gesù, come di fatto è avvenuto ai due discepoli suddetti, dimostra a tutti "dove abita", nel senso che ci rende edotti del fatto che lui, assieme al Padre e allo Spirito Santo "inabita in noi". Dio dell'uomo e lo dimostra nel fatto che egli stesso "dimora" nell'uomo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me"(Gal 2, 20). Concepire la propria vita come vocazione e incontro personale con Cristo equivale così a soddisfare le domande esistenziali dell'uomo e le turbative che da sempre hanno intralciato la serenità dell'uomo, ossia gli interrogativi sul senso della vita. Chi sono? Da dove vengo? Qual è il mio posto nel mondo? Che essi alberghino nell'uomo è già dimostrazione fondata dell'esistenza stessa di Dio, poiché senza un Ente trascendente non avrebbero valore; che lo spirito umano possa darvi risposta solamente nella rivelazione gratuita e spontanea di Dio che "abita" in noi e che determina ogni passo del nostro cammino equivale a vivere la vita nell'ottica della vocazione, quindi a perseguire la vera, ineluttabile, felicità. Vivere la vocazione vuol dire tuttavia atteggiarsi Solo la certezza della chiamata di Dio (appunto la vocazione) ci dà la sicurezza di essere stati concepiti sin dall'eternità per essere destinati innanzitutto alla vita eterna; solo la sicurezza di non essere abbandonati alla fatalità e al caso ci offre la garanzia di avere un destino di salvezza anche quanto al nostro futuro, sia anteriore che immediato e solamente la consapevolezza di essere sempre stati amati ci dà il sollievo che siffatto futuro è un progetto di amore. Cercare come a tentoni la verità di noi stessi è vano e controproducente, cercarla invece in Colui che si è fatto uno di noi, questo è esaltante perché essa ci si offre come dono. A condizione che la si guardi con fiducia omettendo ogni refrattarietà. |