Omelia (04-02-2018)
padre Gian Franco Scarpitta
Il senso del dolore e della malattia

Gesù, che è via, verità e vita, ci conduce alla scoperta del vero e, come la volta scorsa si diceva a proposito di un altro episodio, questo ancorarci alla verità è all'origine della lotta contro il male, rappresentato dalle forze demoniache che impongono seri interventi di esorcismo.
Il maligno è tuttavia "un leone ruggente che va in giro, cercando chi divorare"(1Pt 5, 20) e oltre che nelle manifestazioni straordinarie di possessione lo si può riconoscere soprattutto nella via ordinaria della tentazione e della cattività a cui ci costringe il peccato in generale. Il diavolo è più insidioso quando tenta l'uomo al male piuttosto che quando alberga nel corpo di una persona. E proprio per questo che Gesù, anche negli stessi esorcismi, si qualifica come la Parola fatta uomo che ha autorità sul male e sulla morte, quindi anche sul peccato.
Nell'Antico Testamento qualsiasi malattia fisica era associata al peccato e quando Gesù interviene sulla sofferenza corporale, non può fare a meno di estinguere con questa anche la sofferenza spirituale, il patimento dell'animo e per ciò stesso la realtà peccaminosa che l'accompagna. Ecco che allora, uscito dalla sinagoga nella quale aveva "parlato con autorità" allontanando il maligno da un povero ossesso ivi presente, Gesù si reca a casa di Simone e vi trova la suocera a letto con la febbre. Ovviamente il disturbo di cui soffre questa donna non è paragonabile alla nostra febbre o influenza odierna: in casi come quelli si tratta di una malattia infettiva ben più preoccupante. Sulla quale il Signore ha potere e autorità e oltre che debellare un disturbo fisico elimina quella che è la malattia morale che lo accompagna, per cui adesso avviene che la suocera di Pietro si alza da letto e, libera dal morbo della febbre, "comincia a servirli, traferendo la persona interessata da uno stato passivo e inerte a uno stato di grinta e di attività.
Anche in tantissime altre occasioni, sia dove i Vangeli ne fanno menzione, sia dove ne parlano solo sommessamente, Gesù interviene con successo sul dolore fisico a volte di sua spontanea iniziativa, come quando chiede a un infermo che è in quello stato da trentotto anni "Vuoi guarire?" (Gv 5, 1 - 16); altre volte su esplicita richiesta, altre volte dopo un solo, semplicissimo, atto di fede, come nel caso dell'emorroissa che gli tocca la frangia del mantello. La soluzione di Gesù in tutti questi casi è la guarigione, ossia la liberazione dal dolore fisico, la vittoria sulla malattia che opprime e abbatte il malcapitato che a lui si affida.
Il dolore e la malattia sono realtà scomode e inopportune mai estinte nella storia umana. Dal punto di vista della fede ci si domanda come interpretarle, o meglio come conciliare l'esistenza di un Dio buono e provvidente con l'esistenza dell'infermità che rende vittime molto spesso soggetti innocenti. Come concepire nell'ottica della fede la sclerosi multipla o la SLA che troncano la giovialità e l'entusiasmo di tanti giovani che ne vengono colpiti, irrimediabilmente costretti alla sedia? Come legittimare la Provvidenza e la misericordia divina in relazione ai casi gravi di meningite o al morbo di parkinson? Sempre più malattie e infermità prima sconosciute compaiono ogni giorno sulla scena per affliggerci e darci scoramento nella fede, fino ad infondere in tante persone anche il dubbio che possa esistere un Dio Amore e Misericordia.
Nella Scrittura noi possiamo riscontrare che il malessere fisico è occasione di prova e di esercizio della virtù: Dio non vuole, ma permette che il male imperversi nella nostra vita per offrire un'occasione di fortezza e di perseveranza nella prova. Se la fede va saggiata come oro nel crogiolo, banco di prova della nostra fede può essere la sofferenza e la malattia. Il malessere fisico è anche occasione di riscatto dei peccati, nostri e di altri, perché la malattia è appunto il luogo in cui è possibile configurare il nostro dolore a quello di Cristo, associarci alla sua croce e alla passione per "completare nella nostra carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, ad edificazione del suo Corpo che è la Chiesa"(Col 1, 24). Non è fuori luogo affermare che la malattia possa costituire un monito all'umiltà, in quanto la provazione della salute comporta il riconoscimento che non tutto ci è dovuto e che ogni giorno è adatto a rendere grazie per il dono della salute, riconosciuto preziosissimo quando viene a mancare. Uno scritto di saggezza orientale dice: "La malattia è un avvertimento che ci è dato per ricordarci ciò che è essenziale." Un altro aneddoto racconta: "Mi lamentavo perché non avevo scarpe, finché incontrai un uomo che non aveva piedi." La malattia è anche possibilità per fortificare la virtù, per accrescere la speranza e per rendersi solidali con il mondo intero. Certo, il dolore resta sempre dolore. E' assillante, incute paura più della morte, è un antipatico compagno di viaggio e lo si vorrebbe evitare o eludere. Fuggirgli è impossibile e forse la nostra interazione con esso ci vien data proprio dal prenderlo di petto senza schivarlo. Affrontare il dolore è inevitabile e a ben pensarci anche necessario e irrinunciabile, a condizione che lo si affronti con coraggio e determinazione dandovi il giusto senso solo nella croce del Cristo che da morte è passato alla vita. Gesù stesso riafferma la sua potestà sulla morte con il ricorso alla preghiera intima e solitaria che svolge nel deserto, la quale non manca di inculcargli rinnovato slancio, fiducia missionaria e apertura verso la novità della missione che per l'appunto comporta l'esercizio della verità su ogni forma di male. E appunto la preghiera è l'espediente efficace in cui trovare sollievo nell'infermità e nel dolore.