Omelia (04-02-2018) |
mons. Roberto Brunelli |
Ecco tre strade per sostenere la vita Stiamo faticosamente uscendo da una crisi quale, dicono, mai si era vista dopo l'ultima guerra. Una crisi economica, che ha toccato tutti gli strati della popolazione e a livelli profondi della vita, sino a diventare crisi di certezze, di prospettive, di speranze. In situazioni come questa è facile lasciarsi andare a considerazioni pessimistiche, come quelle della prima lettura odierna, tratta dal libro di Giobbe (7,1-7). E' un caso che la si legga di questi tempi (il calendario liturgico la prevede da decenni); ma sembra quasi una voce di oggi, ad esempio di un giovane senza prospettive, di uno che ha persino smesso di cercare lavoro, di uno che non sa come arrivare a fine mese. "L'uomo non compie forse un duro servizio sulla terra? Come lo schiavo sospira l'ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d'illusione e notti di affanno. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all'alba. I miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza". Giobbe è un personaggio d'invenzione; la storia di cui è protagonista è come una parabola: un racconto inventato per esprimere in forma narrativa concetti e verità. Egli è presentato come un ricco possidente, che d'improvviso perde tutto, i figli, i beni materiali e persino la salute. Si interroga sul perché di quanto gli accade, e non lo convincono né la moglie col suo invito ad abbandonare Dio che non ha saputo proteggerlo, né gli amici, per i quali le sue sventure sono castighi per i suoi peccati. Quest'uomo lo si immagina vissuto secoli prima di Cristo; ma in lui si riflette l'uomo di ogni tempo, spesso sottoposto a prove durissime delle quali non sa trovare il senso, uscendone o con una perdita della fede o, all'opposto, con un rafforzamento della speranza in Dio. Al problema del male il libro di Giobbe dà una risposta tutta sua. Gesù ne dà un'altra, che non contraddice quella ma la cala nella concretezza quotidiana. Scrive l'evangelista Marco (1,29-39) che, uscito dalla sinagoga di Cafarnao (dove aveva guarito un presunto indemoniato, come si è sentito domenica scorsa), Gesù si recò a casa di Pietro, dove ne guarì la suocera febbricitante e "dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da molte malattie...". Questa è una di quelle espressioni con cui i vangeli riassumono l'incessante attività taumaturgica di Gesù, nella quale egli si prodigava anche per lasciare un esempio ai suoi discepoli, di allora e di sempre. Gesù guarisce perché ama la vita e vuole che gli uomini l'abbiano in pienezza; i cristiani sono invitati a fare altrettanto, ovviamente con i mezzi di cui dispongono, per sanare o almeno alleviare le malattie, adoperarsi perché tutti possano vivere dignitosamente e, implicita quanto basilare premessa, nessun uomo si ritenga autorizzato a togliere la vita a un altro. Mai. Oggi, prima domenica di febbraio, i cristiani celebrano la Giornata per la Vita. E ci sono tre strade per farlo. In primo luogo riflettendo, e aiutando tutti a capire, che della vita umana nessuno è padrone, nemmeno della propria: men che meno di quella altrui. Nessuno è entrato nel mondo, e così non può uscirne, di propria volontà; la vita è un mistero, dietro il quale si intravede un disegno più grande che a nessuno è lecito guastare. La seconda strada è quella indicata dal comportamento di Gesù: fare quanto è possibile perché la vita si affermi nel modo migliore. E anche la terza strada è suggerita da Gesù: il vangelo di oggi riferisce che dopo l'intera giornata trascorsa a guarire i malati di Cafarnao, "al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in luogo deserto, e là pregava". Chiedeva al Padre suo la forza per compiere la sua missione. Pregava lui, il Figlio amato: possono esimersene i suoi seguaci? |