Omelia (04-02-2018)
Omelie.org - autori vari


COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Giuseppe Di Stefano

LIBERO DA TUTTI PER ESSERE SERVO DI TUTTI

La Parola che in questa quinta domenica del tempo ordinario ci raggiunge, viene a scuoterci come l'indemoniato di domenica scorsa. Guai a noi se il Vangelo non ha più nulla da dirci, se la Parola di Gesù non riesce più a sconvolgerci, a metterci in crisi. Forse preferiamo puntare al minimo, invece di lasciarci provocare dalla misura alta che la nostra vocazione di battezzati esige. Messi davanti alla passione per il Vangelo di Paolo e al ministero instancabile del Signore Gesù, non possiamo non sentirci bisognosi di conversione per un cristianesimo, come il nostro, troppo spesso ridotto ad un qualcosa di accomodato e accomodante. Sia Gesù che Paolo invece, sono uomini della strada, disposti a tutto, pur di salvare ad ogni costo qualcuno. Il cristianesimo è infatti la religione di quelli della Via, non di quelli comodamente sprofondati in poltrona e che custodiscono nelle proprie quattro mura l'illusione di una santità da "separati" rispetto al mondo.
«Noi altri, gente della strada - scrive Madeleine Delbrêl - crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità». Noi, uomini della strada che conduciamo una esistenza ordinaria, siamo consegnati ai nostri fratelli, che incontriamo nella quotidianità della vita di ogni giorno che noi condividiamo con loro. Noi siamo parte di questa moltitudine innumerevole di gente comune che Dio non ha voluto tener separata dal mondo. L'esistenza che noi conduciamo non è quasi mai molto entusiasmante; eppure, con le sue spine e le sue gioie ordinarie, essa è per noi il luogo nel quale si materializza la nostra vocazione cristiana. Dio, infatti, ci ha lasciati nel mondo, perché nel mondo ci ha inseriti, al mondo ci ha inviati. Nel mondo e non altrove noi siamo chiamati a essere santi: perché è nel mondo che Dio ci vuole oggi.
Se questa è la volontà di Dio, è evidente che egli ci largisce tutti gli strumenti perché vi possiamo corrispondere. Nulla di quanto ci è necessario ci potrà mai mancare.
Certo, di fronte alla sfida di annunciare il Vangelo, dobbiamo fare i conti con la nostra mediocrità, con le nostre debolezze e i nostri facili compromessi con la mentalità del "così fan tutti", ma non possiamo mollare. Scrive infatti Paolo: «non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!». Il Vangelo è la Buona Notizia di Dio per l'uomo, e non saremo certo noi ad intralciarne la corsa, anzi se ci crediamo davvero, questa Parola può cambiare la nostra vita, può guarire le nostre infermità, e fare della nostra debolezza il luogo dove si manifesta quella forza nuova e inimmaginata che è potenza e sapienza di Dio.
Solo chi ha sperimentato nella propria vita la forza risanatrice della misericordia di Dio, può farsi «debole con i deboli, per guadagnare i deboli; tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno». Paolo, una volta incontrato Cristo, si è lasciato afferrare da lui ed a lui ha donato la sua vita, sperimentando così la libertà di chi ha lasciato la propria posizione ragguardevole, le proprie convinzioni religiose e quella giustizia inattaccabile che gli veniva dalla legge, per farsi, come Gesù, «servo di tutti per guadagnarne il maggior numero».
Guardando alla corsa di Paolo, ai suoi viaggi fino ai confini del cuore di ogni uomo assetato di verità, non possiamo non pensare al modo in cui il Signore Gesù vive la sua prima giornata di ministero, secondo il Vangelo di Marco.
Mi emoziona - perdonate la parola - questa immersione di Gesù nella vita più reale della gente, in questi ritmi umani, un poco disumani, immerso in tutti i luoghi: la sinagoga, la casa, la strada, la porta della città, il luogo deserto, chissà, un monte; immerso in tutte le ore: le ore del giorno, e poi il tramonto del sole, e il mattino quando ancora era buio. Non sfuggiamo l'immersione, come Gesù non l'ha sfuggita, segno della fedeltà all'uomo, all'umanità, alla storia, ma neppure lasciamoci travolgere da un attivismo sfrenato che si alimenta di puro volontarismo. Il Signore Gesù, infatti, viene a sollevare in noi la nostra umanità indebolita, comunicandoci la forza che egli attinge nella preghiera, quando si sprofonda nel mistero della sua intima relazione con il Padre.
Una condizione, questa, per non essere prosciugati nell'immersione, una condizione perché «l'essere immersi» non abbia come esito «l'essere sequestrati». Sequestrati nel modo di vedere, di agire nelle situazioni, con le persone. È un pericolo. Lo è stato anche per Gesù: «Tutti ti cercano». Risposta: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là». Immersi, ma non prosciugati; immersi, ma non sequestrati.
Solo così potremo annunciare instancabilmente ed in ogni circostanza il Vangelo, chinandoci in prima persona sulle situazioni concrete di debolezza in cui si trova tanta della nostra gente e donare a tutti, indistintamente, un ascolto attento e generoso, che sa farsi carico con prontezza di quella prossimità ferita, che da noi attende l'unica Parola che fa vivere.