Omelia (11-02-2018) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Ancora sul senso del dolore "Mi lamentavo perché non avevo scarpe. Poi vidi un uomo che non aveva piedi." In questa frase di Morrison forse si compendia una delle risposte possibili al problema della conciliabilità di un Dio buono e provvidente con la persistenza del dolore e della malattia nel mondo. Dio certamente non può volere alcun male per l'uomo e non si prodiga certo, divertito, nel tormentarci con le sciagure e con le malattie; tuttavia è possibile affermare che, pur prendendo le distanze da esso e pur guardandolo con disapprovazione e distacco, Dio "consente" che il dolore si verifichi e imperversi nella vita dell'uomo. E' sempre presente, non è lontano dalla nostra sofferenza, ma ne permette il fenomeno e a volte anche lo sviluppo. Perché? Una delle ragioni è appena stata esposta: il dolore e la malattia sono una pedagogia di vita per quanti piangono per difficoltà e problemi in realtà marginali e insignificanti: la considerazione che esistano certe malattie atroci e disagi deprimenti non può non portarci a considerare che determinati problemi di cui ci lamentiamo sono in realtà marginali e insignificanti e che, appunto osservando chi soffre più di noi dovremmo ringraziare Dio per ciò che abbiamo piuttosto che redarguirlo per quanto non abbiamo. Il fenomeno di gravi malattie atroci che costringono improvvisamente a letto o sulla sedia anche persone giovani, dovrebbero indurci a considerare che la salute di cui noi godiamo è un bene prezioso che ad altri non è concesso e che dovremmo ringraziare il Signore fin quando ne disponiamo. Relativizzare i problemi, le difficoltà e le angosce che ci opprimono considerando che altrove si trovano persecuzioni e assilli di maggiore consistenza è sempre stato espediente di consolazione. Ancora di più quando ci troviamo a mettere a raffronto i nostri mali relativamente sopportabili con le sofferenze a cui sono costretti per esempio i paralitici, gli affetti da sclerosi multipla o da ischemia che preclude l'uso degli arti. Chissà se nelle nostre preghiere abituali siamo soliti ringraziare almeno una volta Dio per il dono della salute, che non a tutti è dato di possedere? Chissà se accettiamo con serenità la longevità e la tarda età? Uno scritto che ogni tanto leggo da qualche parte dice: "Non lamentarti se invecchi. E' un privilegio che non è dato a tutti." La malattia e il dolore servono a qualcosa come pure serve fare l'esperienza di persone che ne sono costrette. Quando, durante un giro di benedizione delle famiglie, mi imbattei in una casa dove viveva una signora sola con due figli handicappati di mente (il meno demente accudiva il fratello più malato) mostrando ciononostante serenità e fiducia, mi vergognai di tutte quelle volte in cui, anche a casa mia, ci si innervosiva per una qualsiasi banalità. Quando vidi in un'altra casa una signora di 90 anni, ancora lucida e consapevole eppure ammalata, che teneva a bada la figlia demente di 60 anni che telefonava a casaccio alla persone, non seppi cosa pensare. Come pure quando vidi il marito di una signora allettata costretto ad alzarsi spesso durante la notte per accudire la consorte. Ebbi la certezza che Dio davvero esiste, visto che ci propone esperienze ed episodi che ci fanno comprendere che dovremmo considerare con più obiettività i nostri problemi e quando ne siamo oppressi dovremmo considerare che c'è chi soffre più di noi. E' possibile del resto alleviare le sofferenze degli ammalati con un gesto anche minimo di vicinanza e di solidarietà, con un piccolo pensiero o una parola di incoraggiamento che tante volte risolleva anche di più della stessa assistenza medica. Prodigarsi nel sostenere chi soffre è peraltro un'altra ragione per cui esistono le malattie e le sofferenze. Il fatto poi che tantissime persone gravate da simili problemi sono quelle che maggiormente palesano una fede incrollabile nel Signore, trovando tempo e ragione per prodigarsi per gli altri, mi convince sempre più che nella malattia c'è un Dio non soltanto presente, attento e misericordioso, ma anche partecipe del dolore degli infermi. E in effetti Dio è solidale con chi soffre, condivide egli stesso il nostro patire con quello della croce, facendo sua l'esperienza di ogni malattia esistente fra gli uomini. Certo, nella malattia siamo anche messi alla prova: il dolore è una possibilità si esercizio della virtù, di perseveranza nella fede, occasione per trovare sollievo nella fiducia in Dio e nelle preghiera e per ciò stesso trovare sollievo e consolazione. Chi si affida a Dio nella prova del male fisico, certamente trova le ragioni del soffrire e può dare un senso alla sua malattia. Il dolore è occasione di esercizio della fede nel Signore la cui croce è una tappa per la resurrezione anche nostra come sua. La malattia è occasione per aprire il cuore a Dio e confidare nella sua paternità e sperare in lui, oltre che apprezzare l'operato del medico: "Onora il medico come si deve secondo il bisogno; anch'egli è stato creato dal Signore... Figlio non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà. Purificati, lavati le mani, monda il cuore da ogni peccato" (Sir 38, 1. 9 - 10). Gesù del resto è uomo dei dolori che conosce il patire (Is 53,9) la cui sofferenza di croce continua nelle membra di chi è gravato dal male. Gesù non è un medico guaritore che ostenta una competenza superiore a quella degli altri medici; non vuole qualificarsi come il portentoso fautore di prodigi e di guarigioni ed è per questo che impone al lebbroso risanato (come anche fa in tanti altri contesti simili) il "segreto messianico": "Guarda di non dire niente a nessuno." Non vuole che si parli di lui come il perito in infermità mentali ma come il Messia, il Salvatore nelle cui opere emerge la misericordia del Padre e l'avvento del Regno di Dio. Quindi non si deve fare verbo eccessivo dei suoi miracoli di guarigione, perché l'unica prospettiva con cui la gente deve guardarlo dev'essere quella della fede. E soprattutto la guarigione da una malattia da lui operata va vista come manifestazione del potere di Dio sul dolore e sulla morte, della divina volontà di intervenire sul male fisico come anche sulla limitatezza morale che spesso lo accompagna. La malattia della lebbra era associata a un peccato commesso e determinava che chi ne veniva colpito veniva considerato impuro e tale doveva proclamarsi nella società. Doveva vestire di cenci, coprirsi fino al labbro e gridare a tutti il suo stato d'impurità (Levitico prima Lettura) e quel che era peggio era considerato un "lontano", un escluso fintanto che perdurava il suo male. Gesù guarda questo lebbroso (e altri) senza pregiudizi e, come nessun altro avrebbe mai fatto all'epoca, allunga le mani su di lui mormorando semplicemente: "Lo voglio, sii purificato". Scompare così la lebbra fisica e l'impurità morale che sottende allo stato di colpevolezza del soggetto. Appunto questo Gesù opera in noi, anche nelle nostre esperienze di continua sofferenza fisica; la guarigione dal peccato, la purificazione dalle nostre colpe e per estensione anche da quelle altrui, poiché la malattia, accettata con risolutezza e determinazione, estingue parecchi dei nostri peccati rendendoci operatori di redenzione verso altri. |