Omelia (11-02-2018) |
don Alberto Brignoli |
Siamo sicuri che Dio emargina? La lebbra è forse la malattia invalidante più antica al mondo, eppure non siamo ancora riusciti a debellarla. Ogni anno si presentano circa 200.000 nuovi casi nel mondo, con una percentuale di mortalità ancora significativa, in quanto meno della metà riescono a guarire. La lebbra uccide tre volte: per la malattia in sé, per l'emarginazione sociale che crea, e per il pregiudizio religioso che mai ha abbandonato chi ne viene colpito. Pregiudizio per il quale molte persone, anche tra i malati stessi, ritengono che sia Dio ad aver colpito con la lebbra una persona meritevole di tale castigo per il suo pessimo comportamento. Sembra di tornare un po' ai temi delle letture di domenica scorsa, dove Giobbe è ritenuto dai suoi amici oggetto della mano distruttrice di Dio a causa delle proprie colpe; concetto che, anche qualora fosse vero, non potrebbe comunque essere applicato all'irreprensibilità di Giobbe. Dio non castiga, e ancor meno lo fa con le persone innocenti. Chi ci "castiga" è la vita stessa, indipendentemente dalle nostre colpe: ma ancor più, gli uomini si castigano tra di loro creando emarginazione e solitudine, in maniera molto maggiore di quanto possa fare una malattia contagiosa. Finché l'uomo crea emarginazione in nome del presunto desiderio di preservarsi dal contagio, può non far piacere, ma può essere comprensibile. Ciò che non è giustificabile avviene quando l'uomo emargina l'altro uomo, soprattutto se malato, in nome di Dio e della sua legge: quando, cioè, si costruiscono teorie e normative corrispondenti a partire da una presunta interpretazione oggettiva della volontà di Dio. Quasi a dire: "Dio ti ha colpito con la malattia, conseguenza evidente di comportamenti sbagliati da parte tua: ora te ne assumi la responsabilità, che è quella di accettare che Dio ti ha messo fuori da ogni contatto con la vita sociale e comunitaria. Sei fuori da tutto, finché Dio non ti darà l'opportunità di guarire e di tornare a far parte della comunità". Ed è quanto avveniva con il regolamento stabilito da Mosè e narrato dal brano di Levitico che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Ci può anche essere una componente di profilassi legata alle conoscenze mediche dell'epoca, per qui, onde evitare contagi ed epidemie, si optava per mandare in isolamento il malato di lebbra; ma il passaggio che conduceva ad interpretazioni integraliste e chiuse della normativa era breve, per cui ogni piccola piaga, o macchia della pelle o vescica che facesse sospettare anche solo lontanamente a qualcosa di contagioso sia pur non così pericoloso per la salute, veniva subito sfruttata come occasione per emarginare una persona dalla comunità, e per di più in nome di Dio. Nel Vangelo, sono due le persone che si ribellano a questa norma, e soprattutto al concetto per cui è Dio che castiga, condanna ed emargina: il lebbroso e Gesù. Il primo, non accetta la sua condizione; soprattutto, non accetta che Dio non voglia considerarlo puro e quindi decida di emarginarlo. E allora entra in città (cosa assolutamente proibita, punibile con la lapidazione), si avvicina a Gesù (con il rischio di contagiarlo) e lo supplica, convinto che Dio non possa averlo abbandonato e castigato; per cui, se i sacerdoti e i leviti non volevano che egli fosse considerato puro, di certo dipendeva solo da Dio voler tornare a considerarlo uno come tutti gli altri. Da qui, il suo grido accorato a Gesù: "Se vuoi, puoi purificarmi!". "Io so - riterrebbe il lebbroso - che il mio sentirmi accettato da tutti dipende solo da Dio: in lui confido, perché ciò che vuole, lo ottiene. Al contrario degli uomini, che nessun'altra volontà hanno, se non quella di isolare, emarginare, eliminare". Ma non è solo il lebbroso a pensarla così: anche Gesù vuole la sua salvezza. E va molto oltre la sua richiesta: stende la mano e lo tocca. Quella mano che Dio nell'Antico Testamento tendeva solo per compiere i suoi castighi, ora si tende per comunicare misericordia e per andare oltre le barriere della legge, sapendo che è molto meglio trasgredire la legge che evitare di dare salute e vita a una persona malata. E dopo aver reso puro colui che era ritenuto impuro, gli impone di andare (come prescriveva la Legge) a farsi vedere da quei sacerdoti che lo consideravano tale, e che se l'avessero visto girovagare libero in città, certamente lo avrebbero condannato a morte: è a loro, principalmente, che Gesù si rivolge con questo miracolo. È a loro che chiede di fare un passo avanti nella scoperta del Dio di Gesù Cristo: un Dio che non incolpa l'uomo per colpe che non ha; un Dio che non emargina di più di ciò già che fanno gli uomini. È un Dio di misericordia e di attenzione verso coloro che la vita ha emarginato, e sui quali si è accanita la barbarie di una religione pronta a condannare più che a salvare. Il lebbroso purificato è coerente fino in fondo: al Dio di quelle autorità religiose non crede più, crede piuttosto al Dio della misericordia, che egli inizia a proclamare e ad annunciare a chiunque incontri sul cammino. Chi paga le conseguenze di questo è ancora Gesù, costretto - forse solo perché aveva toccato il lebbroso - a starsene fuori dalla città per ritirarsi nella solitudine del deserto, dove ritroverà la bellezza di stare con il vero Dio, suo Padre. Se pensiamo che quest'atteggiamento di emarginare gli altri in nome di Dio e della religione non esista più, o per lo meno non faccia parte della nostra cultura cristiana, credo che ci stiamo equivocando. Non mi riferisco certo all'attenzione nei confronti dei malati, per i quali la Chiesa ha da sempre una sensibilità pastorale straordinaria, e la Giornata Mondiale del Malato che oggi celebriamo ne è il segno evidente. Mi riferisco piuttosto a situazioni di disagio morale o spirituale. Mi permetto di fare solo un esempio, discutibile quanto si vuole, proprio nel senso che se ne può e se ne deve discutere, così come papa Francesco ci sta chiedendo di fare da quando è divenuto vescovo di Roma. Pensiamo a come sono considerate le persone che, al di là delle loro colpe e responsabilità soggettive (su cui deve indagare la coscienza, e non la Chiesa), vivono una situazione matrimoniale o affettiva definita "irregolare" (salvo sapere poi cosa significhi "regolare") per via di una separazione, un matrimonio civile, un divorzio, una convivenza che non può ancora divenire matrimonio: oltre alla fatica, alla sofferenza e magari anche al dramma di trovarsi in una situazione spesso più subita che scelta, devono accettare loro malgrado la lontananza dalla piena comunione con la Chiesa (soprattutto quella eucaristica) per via di una disposizione canonica che, per quanto possa essere riflettuta e ispirata, è comunque pur sempre una normativa umana, e quindi non infallibile. E al loro dramma di sentirsi emarginati dalla Chiesa, magari avendo anche un'intensa vita di fede, chi pensa? Non rischiamo di trattarli come i "nuovi lebbrosi" del Libro del Levitico? Gesù Cristo è forse venuto invano a parlarci di attenzione e di misericordia? Non do alcuna risposta a questi interrogativi, non perché non ce l'abbia (personalmente, ho le idee ben chiare al riguardo), ma perché credo che ogni tanto ci faccia bene, in nome di Dio, usare la coscienza per riflettere, piuttosto che le leggi per condannare. |