Omelia (25-02-2018)
padre Gian Franco Scarpitta
La gloria prefigurata dell'obbedienza

"Obbedisco" fu la laconica risposta di Garibaldi al generale La Marmora che, durante la terza guerra d'indipendenza, gli intimava di interrompere l'avanzata che con successo stava guidando in Trentino contro gli Austriaci nella terza guerra d'indipendenza. L'"eroe dei due mondi" si trovò improvvisamente ad aver smentita la sua competenza e la sua operatività e a dover rinunciare ad un progetto militare che avrebbe senza dubbio sortito benefici vantaggi alla Nazione. L'espressione di Garibaldi è diventata caposaldo di ogni riferimento alla difficile obbedienza e di fatto sottolinea come dover rinunciare ai propri progetti per adeguarci a quelli degli altri sia effettivamente rovinoso e sacrificato. A dire il vero, qualsiasi occasione in cui si obbedisce comporta in un certo qual modo l'umiliazione di mancare alla propria realizzazione personale, come pure obbedire implica sempre il sacrificio della rinuncia e dell'immolazione all'altrui volontà. L'obbedienza, anche se virtuosa e garante finalmente di vantaggi e benefici, è sempre dolorosa e sacrificata, anche quando ci sembra di poterne sopportare il peso.
Che dire poi della particolare situazione di sgomento e di choc in cui dovette trovarsi Abramo nell'eseguire un ordine divino assurdo quanto insolito? Il patriarca che oggi ci accomuna nella fede agli Islamici e agli Ebrei, emblema della fede stessa e dell'apertura di cuore a Dio, viene chiamato dal Signore ad una prova davvero lancinante, che farebbe crollare al giorno d'oggi anche il più perfetto nella virtù teologale della fede non importa quando grande sia il suo spirito religioso.
Come egli stesso dice, Dio chiede infatti ad Abramo di sacrificare in olocausto "il suo unico figlio", la benedizione più importante che avesse mai ricevuto dallo stesso Signore. E sacrificando l'unico figlio, peraltro avuto nella tarda età della moglie Sara, avrebbe perso ogni possibilità d discendenza. Isacco doveva essere sacrificato alla stregua di una vittima animale e non ne sarebbero rimaste neppure le ossa. L'angelo del Signore ferma però la mano armata di Abramo e questi capisce di essere stato sottoposto a una prova schiacciante, potremmo dire a un test di fedeltà a Dio. E di aver superato brillantemente questa prova. Il dolore iniziale che l'obbedienza al volere divino aveva comportato adesso si trasforma in soddisfazione e sollievo, perché una volta accortosi che Abramo ha davvero grande fiducia in lui, il Signore lo ricompensa con la promessa di infinite benedizioni per il futuro. Dio non ha sottomesso Abramo ad una verifica semplice e spontanea, ma ha voluto saggiare in lui una fedeltà lungimirante, accertarsi se essa sarebbe stata in grado di farsi carico anche di gravami futuri, di incombenze relative alle generazioni in avvenire.
La buona disposizione a rinunciare, come padre, al proprio figlio Isacco, lo rende agli occhi di Dio adeguato ad essere anche padre di una moltitudine, capostipite di infinite generazioni.
Dio risparmia in tutti i casi ad Abramo di dover immolare il proprio figlio Isacco facendogli trovare immediatamente un'altra vittima animale da offrire in olocausto. A differenza che con Abramo tuttavia Dio non risparmierà il proprio Figlio, Cristo, e a suo riscatto non ci saranno vittime animali da offrire. Sarà lui stesso l'Agnello vittima sacrificale che sostituirà tutti i sacrifici realizzati da mani umane: "Non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci una redenzione eterna"(Eb 9, 12).
La fedeltà al disegno di salvezza del Padre Cristo la dimostrerà non avendo risparmiata la morte, ma dovendo patire una morte estrema di croce, quale vittima di espiazione dei nostri peccati (1Gv 4, 10) e in questo caso il valore dell'obbedienza è ancor più irto di difficoltà e di sacrificio. Non possiamo non configuraci alla croce di Gesù Cristo che si è umiliato facendosi obbediente per noi, soprattutto nella realtà odierna, nella quale obbedire comporta non di rado annientarsi, svilirsi e spesso rinnegare se stessi per poco. Obbedienza mista ad umiliazione è quella che si trova a vivere, per esempio, chi è costretto a sottostare alla vessazione di turni massacranti negli incarichi di lavoro sottopagato o non ben remunerato; di chi sempre sul lavoro si trova a farci carico delle incombenze altrui per non rischiare il licenziamento; di chi è costretto a subire angherie, derisioni, ingiustizie sottomettendosi al volere di altri per non perdere il salario e il sostentamento. Obbedire è sinonimo di umiliazione per chi, in determinati contesti professionali, deve necessariamente conformarsi a un sistema ingiusto e a volte immorale o fuori dagli schemi per assicurare il profitto o e il successo economico di chi sta al di sopra. E' doloroso vivere l'obbedienza quando ci si deve uniformare a un sistema di convivenza superficiale e approssimativo, nel quale la legalità e la coerenza hanno solo aspetti secondari. Questi e altri casi ci configurano una situazione di obbedienza davvero dolorosa e lancinante, che ci immedesima nella croce di Cristo, ma in forza della quale siamo invitati a non abbandonare la speranza guardando al futuro progetto della risurrezione che ci è garantita dallo stesso Signore che, da Vittima innocente si è affermato Vincitore indomito e assoluto.
Cristo obbedisce sottomettendosi alla tortura, ai patimenti, nella perdita della propria dignità personale, nel deprezzamento della propria libertà e finalmente nel sangue sparso sul legno.
Ma se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio a differenza che con Abramo, non ha omesso di far conseguire all'umiliazione la gloria: Gesù passerà dalla morte alla vita, resusciterà per essere innalzato al di sopra di tutte le creature e per essere al centro della creazione stessa. L'obbedienza e l'umiliazione sono state patite e sacrificate, ma pur sempre necessarie per ottenere meriti, gioie e ricompense, perché Cristo comunque affermerà su tutti la sua divina potenza e magnificenza.
Adesso ne sta dando un saggio sul monte che la tradizione ha identificato come il Tabor, quando davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni si manifesta in tutto il suo fulgore, prorompendo nella gloria indicibile. E'la stessa gloria che manifesterà una volta fuoriuscito dal sepolcro, ma che adesso diventa allusiva di un'altra verità di fatto: il Figlio di Dio. Che potrebbe affermare se stesso nel predominio e nell'esercizio di ogni potere, sta per recarsi a Gerusalemme dove verrà esautorato e reso privo di qualsiasi potere; lo stesso Signore le cui vesti rifulgono di un candore inverosimile è colui che dovrà liberarsi dalle bende e dal sudario dopo aver macchiato del proprio sangue vesti e lenzuolo.