Omelia (04-03-2018)
dom Luigi Gioia
La religiosità non è fede

Potremmo essere sorpresi di leggere che Gesù, arrivando nel tempio di Gerusalemme, vi trovasse buoi, pecore, colombe e persone che li vendevano. Questo episodio va situato nel contesto della pratica religiosa ebraica prescritta dalla scrittura stessa, soprattutto dal libro del Levitico. Il culto del tempio era fondato sull'offerta di sacrifici di animali e quindi richiedeva che ci fossero colombe, pecore e buoi a disposizione e, conseguentemente, qualcuno che li vendesse. Non è quindi la presenza di questi animali nel tempio che conduce Gesù a compiere questo gesto radicale e, bisogna ammetterlo, violento. Gesù reagisce contro la perversione in semplice religiosità di quello che era stato istituito come un atto di adorazione di Dio e di ringraziamento.
La distinzione tra adorazione autentica e le varie forme naturali di religiosità è di fondamentale importanza.
I sacrifici di animali prescritti dal Levitico dovevano essere il segno dell'offerta di sé e di una gratitudine che scaturisse dal cuore. In una economia fondata sul pascolo degli animali tale gratitudine non poteva trovare migliore espressione dell'offerta dell'animale più bello del proprio gregge. Se i greggi crescevano e prosperavano era infatti grazie alla benedizione del Signore. Offrire capi di bestiame esprimeva questa consapevolezza e diventava una forma di lode, di preghiera e di invocazione della benedizione del Signore. Tutta la letteratura profetica lo conferma: il sacrificio degli animali di per sé non interessa Dio visto che comunque tutto il creato già gli appartiene; il sangue di animali non dà lode a Dio. Gli dà lode invece un cuore pentito e umiliato. Gli dà lode la preghiera.
Quando Gesù entra nel tempio a Gerusalemme, invece della lode, della preghiera, dell'adorazione trova una sacralità mercantile che ha trasformato il culto in baratto. I sentimenti che avrebbero dovuto animare questi sacrifici erano stati dimenticati. Non si sceglieva più l'animale migliore del gregge, se ne comprava semplicemente uno sul posto e lo si offriva per essere in regola, come se il sacrificio consistesse solo nella materialità del gesto. L'atto di culto, cioè i sentimenti interiori di gratitudine, di lode, di adorazione si erano trasformati in religiosità - ma la religiosità non è la fede e proprio perché ne simula esteriormente la forma finisce con il soffocarne lo spirito, cioè la relazione autentica con il Signore. La fede è esigente perché richiede un vero dono di sé. La religiosità, anche quando si esprime in gesti eroici o che comportano sacrifici, è motivata dal desiderio di essere in regola, diventa una forma di scambio di favori, un modo per controllare l'influenza del divino nella propria vita che per quanto potenzialmente esigente resta comunque delimitabile.
La fede è il riconoscimento di Dio come nostro creatore, per il quale siamo importanti, che vive ed è presente in noi. Gli atti di culto hanno senso solo nella misura in cui sono espressioni non di religiosità ma di fede, solo se dicono l'adesione filiale al Padre.
La tentazione di lasciare la fede scadere in religiosità ci minaccia oggi tanto quanto al tempo di Gesù. Per questo siamo invitati ad interrogarci molto concretamente su questo punto. Perché andiamo in chiesa? Perché siamo 'praticanti'? Per essere in regola? Per dare a Dio qualcosa in modo che lui ci dia altro in cambio? Oppure, lo facciamo perché riconosciamo in Dio un padre che ci ama, perché siamo consapevoli di essere nelle sue mani e che tutto quello che abbiamo e più ancora tutto quello che siamo è un suo dono?
La prima lettura ci fa capire cosa costituisca l'unico sacrificio veramente gradito a Dio. Io sono il Signore tuo Dio - dice questo passaggio tratto dal Libro dell'Esodo - che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile (Es 20,2; Dt 5,6). Io sono il tuo Dio che ti ha salvato dalla morte e liberato dal peccato. Sono il padre che ha dato il suo figlio per te. Non avrai altri dei all'infuori di me. Solo il Signore tuo Dio adorerai, perché io sono un Dio geloso. Non pronuncerai il nome di Dio invano (Es 20,3-7). E poi solo a questo punto aggiunge: ricordati del sabato per santificarlo. (Es 20,8) Il nuovo sabato è la domenica, giorno della resurrezione del Signore. Ci è chiesto di ricordarci di questo giorno per santificarlo, non come semplice espressione di religiosità, non per essere in regola con Dio, ma proprio perché riconosciamo che Dio è il Signore che ci ha fatto uscire dalla terra d'Egitto e perché vogliamo rendergli grazie.
La fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, la fede nel Dio di Gesù Cristo, è fondata sull'interiorità. Quanto è detto nei dieci comandamenti acquista il suo vero senso solo con il discorso della montagna, nel quale Gesù ci annuncia che non si tratta semplicemente di non uccidere, non rubare, non dare falsa testimonianza e non desiderare la donna dell'altro (Mt 5,20ss). La vera adorazione deve modellarci interiormente e diventare povertà in spirito, onestà, sincerità, mitezza, spirito di pace. Non basta più solo non uccidere, ma dobbiamo evitare anche di dir male del nostro prossimo; non basta più semplicemente non commettere adulterio, ma occorre non cedere ad impulsi che trasformino l'altra persona in un semplice oggetto del mio desiderio - e via dicendo.
Nella religiosità teniamo Dio a distanza, lo consideriamo - magari con sospetto - come una divinità da accontentare. Nella fede invece lo accogliamo come padre e ci riconosciamo come suoi figli. Non per timore, ma per amore, vogliamo offrirgli non solo un po' del nostro tempo, non solo un angolo della nostra vita, ma tutto noi stessi in un sacrificio di lode e di ringraziamento, in un atteggiamento di disponibilità e di apertura del cuore che manifesti il nostro amore per lui, il nostro bisogno di lui, il nostro desiderio di essere con lui.

Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, "Educati alla fiducia. Omelie sui vangeli domenicali. Anno B" ed. Dehoniane. Clicca Clicca qui