Omelia (11-03-2018) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Due tappe irrinunciabili per la vita Victor Hugo, che definiva Dio "l'invisibile evidente", scriveva la nota frase più volte ricordata in queste note, per la quale "per vedere Dio l'occhio ha bisogno della lente delle lacrime". Nella prova, nel dolore e nella sofferenza è possibile infatti riscontrare la presenza di Dio, che non di rado nel benessere e nella prosperità è misconosciuto o irriso. Nel buio del dolore e dello smarrimento, nell'abbandono e nella desolazione non è raro fare esperienza di una presenza ineffabile, misteriosa eppure certa che ci interpella e ci chiama a sé, ottenendoci anche di scoprire il senso stesso della negatività e della prova. Vi sono certamente persone che crollano nella fede al presenziare della minima difficoltà, ma personalmente ho fatto esperienza di famiglie che proprio nelle atrocità delle prove e delle privazioni hanno fatto conoscenza di Dio, accrescendo la consapevolezza che non ci si può esentare dal dipendere da qualcuno che sta al di sopra di noi. Determinate esperienze infatti ci ragguagliano della nostra insufficienza, della limitatezza che ci caratterizza e della vanità della nostra presunzione, dischiudendoci alla speranza in un Altro da noi. Un Altro che resta sempre tale in se stesso e che tuttavia si fa per noi. Dolore e gioia sono un alternarsi descritto nella liturgia della parola di questa Domenica, che ci illustra un altro elemento caratterizzante il tempo di Quaresima. Sia il testo del libro delle Cronache sia il brano evangelico parlano di una punizione divina alla quale fa seguito una prospettiva di speranza e di salvezza, quindi di un alternarsi fra un modo di saggiare la nostra fede e un intervento risolutivo consolatore. Il popolo d'Israele è stato punito per aver usato refrattarietà alla parola di Dio che si è rivelato per mezzo dei profeti presenziando anche nel tempio di Gerusalemme: si sono usati indifferenza e distacco nei confronti del Signore e per questo si è meritata la pena dell'esilio a Babilonia. Ogni punizione è tuttavia occasione di riflessione e di ravvedimento e la vera penitenza non è mai vendicativa, ma risolutiva all'emendamento della persona e al recupero della sua dignità reale. Come del resto si evince nelle famosissime pagine della "condanna" di Adamo al lavoro per guadagnarsi la vita: il testo della Genesi descrive in tale episodio una sorta di "punizione" nella quale prende forma la possibilità di realizzazione dell'uomo e la sua formazione nella vita. Così l'esilio babilonese diventa per gli Israeliti opportunità di personale esperienza di Dio, di interiorizzazione della sua Parola nel mezzo dei vincoli della privazione, insomma di cambiamento e di conversione. Se viene colta nella sua interezza, questa opportunità diventa foriera di salvezza: l'editto di Ciro annuncia infatti la liberazione e il rientro alla terra nativa. L'esilio è stato per il popolo una pedagogia divina finalizzata alla conversione e alla radicale trasformazione, per cui il popolo prima segregato e limitato adesso può sperare nella gioia della ricompensa. Frattanto ha compreso l'amore del Signore, che è sempre finalizzato per l'appunto alla conversione e si protende a farne tesoro per sempre. Anche durante la peregrinazione del deserto nell'attesa di raggiungere la terra promessa il popolo ebraico manca di fede e di consolidamento nel Signore: protesta, si ribella, si ostina a pretendere quasi ponendo delle condizioni a Colui che le condizioni dovrebbe invece dettarle. E questa volta la punizione è molto più inclemente e distruttiva: serpenti velenosi sbucano da ogni zolla di terra desertica per pizzicare a morte il popolo. L'intercessione di Mosè non si fa attendere: si fa portavoce dei sentimenti di contrizione da parte di tutto il popolo e della serietà del suo ravvedimento. Finalmente Dio, preso atto della buona disponibilità interiore degli Israeliti, pone fine al suo emendamento punitivo: dovranno solamente forgiare un serpente di rame e collocarlo bene in vista, in modo che chiunque lo guardi resti immune dal veleno dei serpenti vivi che continuano ad assediare la gente da ogni parte. Nel serpente di rame si riscontra la presenza risolutrice del Signore. Sulla scia del serpente del libro dei Numeri, anche Cristo verrà innalzato alla gloria dopo aver affrontato l'atrocità del dolore e della morte e il suo innalzamento sarà per noi motivo di salvezza. Ma occorre considerare ancora una volta le due irrinunciabili tappe necessarie della mortificazione e della gloria. Tante volte le prove e le difficoltà si rivelano occasione di incontro personale con Dio, nonché prospettiva di conversione e di cambiamento e non di rado anche gli stessi interventi punitivi di Dio. A mio giudizio è inappropriato affermare che Dio punisca o condanni. Solamente interviene con espedienti atti a correggere e ad emendare e a prendere adeguata consapevolezza di noi stessi e delle nostre condizioni. Personalmente mi sono trovato in più occasioni pastorali a lamentare alcune lacune e difficoltà, ma quando successivamente le mettevo a raffronto con altre esperienze ancora più complesse mi trovavo a commentare "stavamo maglio quando stavamo peggio"; Dio mi fa valutare se realmente io avevo diritto di lamentarmi. Dio in occasioni come queste interviene per correggere e indirizzare e soprattutto per farci comprendere che in tutto questo lui non è assente. L'obiettivo del Signore è certamente quello di radicare in noi il dono più eloquente affinché possiamo restare in ogni caso radicati in lui sia nella buona che nella cattiva sorte, la prospettiva che ci garantisce in tutti i casi la salvezza determinando in noi la solerzia nella lotta contro il peccato e incentivando anche lo sprone alla fiducia continua senza riserve. Stiamo parlando del dono della fede, descritta da Paolo non come opera dell'uomo affinché nessuno possa vanarsene, ma come dono esclusivo di Dio (Ef 2, 8 e ss). Ed effettivamente se Dio non prendesse egli stesso l'iniziativa di attirare l'uomo a sé, non sarebbe possibile credere quindi salvarsi. E tale iniziativa può anche essere definita con i mezzi forse per noi inopportuni ma infinitamente e necessariamente appropriati per lui, perché il nostro occhio lo veda con la lente delle lacrime affinché alle lacrime subentri la gioia. |