Commento su 2Cronache 36,14-16.19-23; Gv 3,14-21
Amici, siamo a metà quaresima, all'inizio della messa c'è l'invito a rallegrarsi, esultare e gioire: il compito di ogni cristiano è rendere felici gli altri che vivono accanto a lui, perché Dio si prende cura di noi, è buono e fedele e non si stanca mai di portarci al passaggio di conversione da creature inconsistenti a suoi figli, che vivono la stessa vita di Dio!
Occorre presentare una nuova immagine di Dio, quel Dio che perdona gratuitamente e al peccatore offre misericordia, senza chiedere nulla, purché la sua azione venga accolta e quindi la vita si sviluppi. Dio non è il Dio che punisce e che emargina i peccatori!
2 CRONACHE 36, 14-16. 19-23
La prima lettura è tratta dal II libro delle Cronache. Queste opere sono state scritte all'inizio dell'epoca greca. L'autore è sconosciuto. Lo si chiama il Cronista. Come abbiamo già detto più volte, la bibbia non vuole farci la cronaca di ciò che è successo allora, ma ci vuole mostrare quello che dovrebbe essere la nostra vita! Ci riguarda in modo personale. L'intera vicenda d'Israele e di Giuda è una serie di richiami premurosi che Dio ha attuato nei confronti del suo popolo, inviando dei profeti, i suoi messaggeri. A questa compassione corrisponde, da parte del popolo, non l'accoglienza ma il rifiuto e il disprezzo verso i profeti, divenuti oggetto di scherno. Il Signore della storia è soltanto Jhvh e non le varie potenze politico-militari che si succedono. Anzi, sono al servizio del compiersi della parola del Signore.
L'autore si richiama a una profezia di Geremia, riguardante la durata dell'esilio per settant'anni. L'autore è della corrente sacerdotale che si era impegnata a tenere unito il popolo lontano dalle contaminazioni degli dei babilonesi, e vede nell'osservanza del sabato lo strumento per il permanere d'Israele nell'alleanza e nel suo segno visibile che è il dono della terra. Nel loro concetto, al peccato corrisponde il castigo, alla fedeltà il bene e il premio. In realtà il peccato ferisce la libertà dell'uomo e lo trascina su vie di smarrimento e di disfacimento, mentre il bene ha in sé una carica di gioia e di senso che gratifica il cuore. L'intento che Dio persegue con passione, non è dunque il castigo del peccato, ma la conversione e la vita dell'uomo. Il Signore desta lo spirito di Ciro, re di Persia e questo suo intervento misterioso sfocia nell'editto regale del 538 a.C.. Ciro fa riedificare il tempio di Gerusalemme, considerata la "casa" di Jhvh in mezzo al suo popolo. Inoltre l'editto sollecita i giudei deportati a tornare nella loro terra. Il credente è chiamato a fare della sua vita una sorta di ascesa per l'incontro con il Signore, proprio come si fa per salire al tempio.
GIOVANNI 3, 14-21
Proseguiamo con il Vangelo di Giovanni. Domenica scorsa abbiamo incontrato Gesù che "scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi" e abbiamo visto che con questo gesto abolisce ogni forma di culto orientato a ottenere il favore di Dio, perché l'amore del Padre è concesso gratuitamente. Il gesto di Gesù non viene compreso né dai discepoli, che vedono in lui un riformatore delle istituzioni religiose, né dagli scribi e farisei. Tra costoro c'era un uomo, di nome Nicodemo, che significa "vincitore"-niko-"del popolo" -demos- uno dei capi dei Giudei. Si reca da lui "di notte". La notte, nel vangelo di Giovanni, è l'immagine delle tenebre che tentano di portare via la luce portata dal Signore: indica l'incomprensione, l'ostilità nei confronti di Gesù. Nicodemo è una persona in buona fede, che crede nel valore della Legge, ma l'onestà e la giustizia non sono sufficienti per vedere il regno di Dio. Occorre un taglio radicale col passato, con l'appartenenza al gruppo di potere che Nicodemo rappresenta. Gesù gli parla di una nuova nascita, ma Nicodemo pensava che questa nuova nascita dipendesse dai propri sforzi, Gesù risponde che è di origine divina, è comunicata dal Padre.
La creazione non è finita, per il fariseo invece è terminata e segno inequivocabile è il precetto del riposo nel settimo giorno, invece Gesù dirà: "Il Padre mio opera sempre e anch'io opero". Mentre per la Legge, tutto è definito e ordinato e immutabile, per lo Spirito non possono esistere regole, perché non si sa da dove viene e dove va.
Gesù per la prima volta allude alla sua morte: "Bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque creda in lui, abbia la vita eterna." Chiariamoci subito un'idea fondamentale. Non era necessario che Gesù morisse in croce perché noi avessimo la vita eterna. Non è volontà di Dio che Gesù soffrisse e morisse in croce. Purtroppo queste falsità circolano ancora, ma Dio non può volere il male. Dio è bene assoluto. E allora perché l'ha lasciato morire in croce? Perché l'ha permesso? Non l'ha permesso! Dio non è onnipotente nella storia, lo sarà quando "sarà tutto in tutti", quando saremo in comunione gli uni con gli altri. Chi ha messo in croce Gesù sono stati questi uomini, che non hanno accettato una visione di Dio diversa dalla loro! Gesù pensava di insegnare una buona notizia, che non occorre meritare l'amore del Padre, ma basta accoglierlo e assomigliare a lui, non era stato accettato perché i suoi discorsi richiedevano cambiamenti profondi e impegnativi.
Viviamo situazioni non assolute, ma un dato di fatto. Accadono fatti contro il volere di Dio. La volontà di Dio non è la croce. Dio offre molte possibilità. Gesù, dopo essere stato tentato di rinunciare al suo cammino dell'amare, decide di proseguirlo a qualsiasi costo. La morte è stato il sigillo all'amore, la misura dell'amore.
Il Figlio dell'uomo, il vero uomo, non "è venuto a giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui." La salvezza avviene con la collaborazione della nostra libertà.
Mosè innalzò un serpente di rame su un'asta per salvare gli ebrei morsicati dai serpenti: chi lo guardava restava in vita. (Num.21,9). Guardare in faccia il nostro male è già rinunciare ad esserne vittime. Il vecchio Adamo resta tuttavia in ognuno di noi, sempre tentato di accusare se stesso o gli altri, di vergognarsi o di giudicare.
Il profeta Zaccaria fa un passo avanti (12,10). Annuncia come segno dei giorni del Messia, che gli "uomini guarderanno a colui che hanno trafitto" e saranno allora ricolmi di "uno spirito di grazia e di consolazione".
Anche se la consapevolezza del nostro male è condizione necessaria per la guarigione, finché non abbiamo perdonato a chi ci ha ferito o finché non abbiamo assunto le conseguenze dei nostri peccati nella vita altrui, il male si perpetua, perché la vendetta risponde all'offesa con la negatività. Sulla croce, Gesù incarna tutto il dolore innocente della storia, inflittogli da persone non consapevoli del male, che dimorava nel loro cuore e riversavano su di lui. In un certo modo, siamo tutti vittime innocenti, giacché sin dalla nascita ciascuno porta in sé il male ereditato dalle generazioni precedenti e si trova lanciato in un mondo dove il male inficia le relazioni. Tuttavia da soli non sappiamo assumere il male, ne restiamo succubi. Perciò su Cristo si è scagliato l'odio umano, frutto di ferite sovente inconsce, ma non si lamenta, non accusa, anzi prega perché siano perdonati i suoi carnefici. Diventa persino il loro avvocato, svelando la loro inconsapevolezza: "Non sanno quello che fanno" non sanno che si vendicano di ferite che non sono state guarite. Morendo ci lascia il suo Spirito. Quello stesso Spirito che lo ha condotto così lontano sulla via del perdono, pervade ormai l'umanità, rendendo possibile la trasformazione del male in amore per via del perdono già donato in Cristo. Guardare alla mitezza del Signore inchiodato su un legno è lasciarsi permeare dalla salvezza, dal suo Spirito che rivela che solo l'amore guarisce dal male.
Siamo gioiosi sempre e cerchiamo di portare avanti il messaggio d'amore di Cristo a qualunque costo, nella nostra vita di tutti i giorni.
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