Omelia (18-03-2018)
don Luciano Cantini
Per non restare soli

Vogliamo vedere

"Vedere non è tanto il contemplare di Platone, quanto lo stare di fronte all'evidenza dei fatti". (Hans Urs von Balthasar). È dunque necessario mettersi davanti ai fatti, quelli che gli evangelisti ci tramandano come quelli dei nostri giorni rileggendoli nella fede, cercando di andare oltre l'evidenza del visibile, del contingente storico e scoprire il mistero all'interno di quella storia che ci appare molto umana. Senza escludere la realtà di ciò che è sotto la nostra esperienza, piuttosto trovando in essa il fondamento, dovremmo arrivare a uno sguardo di fede della medesima realtà. Nasce un movimento di persone molto diverse che vogliono vedere - qui l'evangelista non racconta di una umana curiosità quanto la necessità di comprendere quanto la storia ha messo davanti a questi uomini - arrivato fino a Gesù legge questa richiesta come l'inizio dell'«ora» della sua glorificazione.


Rimane solo

Rimanere soli, il senso dell'abbandono, è la sofferenza, o la condanna, più pesante che l'uomo possa mai provare. Eppure l'attaccamento alla vita, l'egoismo, il rifiuto della morte, personale o collettivo, innesca un percorso di solitudine, di distanza dagli altri, di vuoto relazionale. Tutte le forme di protezionismo economico o sociale, le filosofie che esaltano l'identitarismo, le prassi politiche che puntano sulla esclusione dell'altro, rimangono sulle difensive, non mettono a rischio l'avventura della vita e della storia. La vita si nutre di incontri, di scambi, ha bisogno di radicarsi nella storia come il seme nella terra. La morte non è di un istante, ma un fatto dinamico e progressivo che abbraccia tutta la vita e la esprime. Così la vita non sarebbe veramente vita, se non facesse i conti, tutti i giorni, con la morte. Forse è paradossale dire che muore davvero solo chi non vuole morire e cerca con tutte le forze di rimanere attaccato a se stesso.


Dove sono io

La fede ci chiede di fare esperienza dell'«altrove» che si concretizzerà nel futuro: come ad Abramo fu chiesto di andare nella terra che Dio gli mostrerà, così ai suoi discepoli chiede di seguirlo fin da subito verso un luogo altro che raggiungerà. Il testo è pregno di dinamismi, dal l'uso dei verbi allo stesso dipanarsi del racconto... i Greci non hanno terminato il loro viaggio; Filippo va da Andrea, insieme andarono da Gesù, ma anche il loro andare non è terminato: non possiamo né dobbiamo restare fermi, chiudersi nella propria dimensione personale, familiare, di nazione o di religione. Il nostro andare nella vita non ha ancora raggiuto la sua meta. Il chicco di grano caduto in terra, non si isola in una inutile morte che annichilisce, piuttosto scopre dinamiche nuove, relazioni impensate per sviluppare una vita nuova piena di frutto. Vi è un luogo altro da raggiungere che ancora non abbiamo compreso e che sarà possibile intravedere soltanto se oggi ci mettiamo a seguire il Signore. Il cristiano non è un imitatore di Cristo, ma colui che decide di servirlo e seguirlo. Non rinuncia alla propria umanità, ma la conduce là dove il maestro la porta.


A quest'ora

Adesso l'anima mia è turbata, non è la paura della morte "piuttosto è turbata in lui la nostra debolezza" (S. Agostino). Il turbamento di Gesù rivela l'animo di Dio di fronte alla debolezza dell'uomo, di fronte alla morte come espressione ultima del male. "Proprio per questo sono giunto a quest'ora!" Gesù è venuto per liberare l'uomo dalla morte che lo fa morire mentre gli offre l'opportunità di una morte che lo fa vivere. Gesù distrugge la morte che rende soli per trasformarla nella pienezza dell'amore. Gesù, come il chicco di grano, si immerge nell'oscurità di quanto è negativo nell'uomo per fecondarlo con l'amore e far crescere la luce della vita. Amare la vita non è possederla ma farne dono. L'offerta della vita stessa è la manifestazione della gloria di Dio.