Omelia (18-03-2018) |
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COMMENTO ALLE LETTURE Commento a cura delle Clarisse di Via Vitellia Il brano del vangelo è come un tassello di un grande quadro: lo si comprende meglio guardando l'insieme dell'immagine. Proprio in uno sguardo complessivo scopriamo l'importanza che il passo di questa V Domenica di Quaresima gioca all'interno del vangelo di Giovanni. Si tratta infatti di una svolta decisiva. Fino a questo punto del racconto - siamo al capitolo 12 - abbiamo sentito dire che qualcosa che riguarda Gesù non accade in quel momento perché non è ancora giunta la sua ora (2,4; 7,30; 8,20). In particolare, nelle due precedenti ricorrenze, quest'ora è messa in relazione con la volontà di fermare Gesù: gli esponenti religiosi a lui ostili hanno già deciso in cuor loro di arrestarlo, eppure lo svolgimento dei fatti non è in loro potere, la loro decisione deve sottostare a quella misteriosa ora in cui si compie la missione che il Padre ha affidato al Figlio. L'ora decisiva non è dunque il momento propizio per mettere in atto strategie umane su Gesù, ma il tempo che Dio si riserva per aprire definitivamente, in un angolo della storia, un varco di luce e imprimere nel corpo e nella vita del Verbo fatto carne il sigillo della sua fedeltà per ciascun uomo. Le cose che accadranno non saranno diverse, apparentemente, da ciò che hanno deciso gli avversari di Gesù. Ci saranno, in effetti, l'arresto e la condanna a morte; tuttavia, nel progetto di Dio, avranno il valore di una consegna volontaria che Gesù fa di sé per donare la vita in un gesto supremo di amore. In quel momento Gesù potrà dire di aver fatto la sua parte, di essersi fatto tutto e soltanto dono a Dio e agli uomini (cfr. Gv 19,30: «è compiuto!»). Sarà il Padre, a quel punto, a prendere in mano l'orologio dell'ora di Gesù per portare le lancette oltre il tempo della morte e fissarle, in una dimensione di eternità, sul compimento dell'opera: l'elevazione del Figlio nella sua gloria, come primizia di tutti i figli che, nel tempo, vivranno la fede in Gesù. La svolta decisiva del nostro brano sta dunque nel fatto che in esso, per la prima volta, sentiamo dire che quell'ora è venuta (12,23). Lo dice Gesù stesso, parlando di sé come de il Figlio dell'Uomo, nella consapevolezza, dunque, di una identità che gli viene da Dio e che lo lega in modo unico e irripetibile al destino dell'umanità: «È venuta l'ora che il Figlio dell'Uomo sia glorificato» (12,23). Perché Gesù riconosce che l'ora è venuta? L'annuncio arriva come risposta ai due discepoli - Filippo e Andrea - che riferiscono la richiesta di alcuni Greci saliti a Gerusalemme per il culto festivo: vogliono vedere Gesù! È questo il segno. Alcuni stranieri, che vivono come ospiti nel popolo giudaico - al quale non appartengono per nascita, ma con il quale lodano e adorano l'unico e vero Dio -, bussano alla porta di Gesù, che, nel vangelo di Giovanni, ha già parlato: del suo corpo come di un tempio (2,18-21); della vera adorazione al Padre come dono da lui riversato nel cuore dei figli, al di là delle divisioni e distinzioni della storia («né su questo monte né a Gerusalemme adorerete» ma «in spirito e verità» 4,21.23-24); della vita eterna come esperienza che la fede comincia a rendere accessibile già nel presente. Di fronte a questo segno, Gesù riconosce il tempo di aprire definitivamente a tutti il varco nuovo del vangelo. Colui che aveva proclamato: «Io sono il buon Pastore... e ho altre pecore che non provengono da questo recinto... anche quelle io devo guidare» (10,16), ora ha davanti a sé volti stranieri di un popolo diverso, che hanno ascoltato la sua voce e chiedono di unirsi al suo gregge, di ottenere, grazie alla comunione con il Figlio, la grazia di essere veri figli. Colui che aveva detto: «Io sono la porta» (10,9), ora riconosce il tempo di porsi tra un recinto e l'altro come battente aperto che annulla le separazioni, il tempo di squarciare il velo del tempio da cima a fondo, con un estremo grido di amore, perché tutti vedano, tutti accedano alla comunione con Dio per il solo fatto di credere, di affidarsi a Lui con tutta la disponibilità del cuore e della vita. È un passaggio cruciale per Gesù, che ben conosce quanto sia difficile, ad ogni livello, allargare i confini dei recinti, aprire porte chiuse, cambiare strutture che hanno perso la loro funzione. Lo è tanto più di fronte alla novità di un Dio che si incarna e viene a smascherare le omissioni, le aggiunte e gli aggiustamenti con cui abbiamo ascoltato la sua parola e gestito le sue promesse! Gesù vorrebbe chiedere di essere salvato dalla fase decisiva di questa missione, che si è già manifestata nella sua difficoltà e durezza («adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora?» 12,27), ma riconosce che proprio in questa missione sta il suo desiderio profondo, quello che ha portato venendo dal seno del Padre e che lo sosterrà fino alla fine («ma proprio per questo sono giunto a quest'ora» 12,27). L'ora della consegna di sé in una tenebra di ingiustizia e di solitudine coincide con un evento di glorificazione proprio per il desiderio luminoso che Gesù custodisce; nell'ora della sua Pasqua risplende e regna la realtà stessa di Dio, che è Amore incondizionato, Vita donata, Bellezza che tutto riempie di grazia. Il seguito del racconto di Giovanni - nei capitoli successivi - rivelerà il cuore e l'intenzione con cui Gesù entra nella sua ora. Vi entra in ginocchio per lavare i piedi ai suoi discepoli, in un gesto di servizio che dica loro il suo amore sino alla fine («sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» 13,1ss). Vi entra in preghiera per riconsegnarsi al Padre e affidargli il frutto prezioso della sua missione: l'aver portato in terra l'amore di Dio per abbracciare ogni uomo e la fraternità degli uomini in un unico paradiso («Padre, è venuta l'ora... custodiscili nel tuo nome.... Siano una sola cosa come noi siamo una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità...» cfr. 17,1ss). L'amore per noi guida Gesù in tutto ciò che è e fa. Nel momento in cui egli annuncia l'ora della sua Pasqua, ci consegna anche il dono di due immagini per entrare ogni giorno con lui in quella Pasqua che resta fissata per noi nella storia come portale d'ingresso alla felicità, a quella dimensione di salvezza che cerchiamo a tentoni, spesso sbagliando strada. La prima immagine è quella del chicco di grano caduto a terra: «se muore, produce molto frutto». Tutti sperimentiamo momenti in cui ci sentiamo gettati in una situazione difficile, incomprensibile. Ma noi siamo seme, piccole creature fatte per la vita, che sempre viene alla luce dopo essersi formata nel buio del grembo, nell'oscurità della zolla. Ogni situazione può essere quindi la terra madre che ci accoglie per far venire alla luce la nostra fecondità, che ci custodisce per far germogliare da noi un nuovo miracolo di vita. La caduta a terra - a volte difficile come la morte - è una premessa di vita per chi sa di essere un chicco di grano e può diventare una consegna consapevole come quella che Gesù ha fatto di sé nella sua ora. Non certo mettendo in campo un atteggiamento eroico, ma offrendo le nostre preghiere e suppliche, le nostre grida e lacrime (cfr. la seconda lettura tratta dalla Lettera agli Ebrei) al Padre di Gesù, che conserva per la vita eterna ogni vita a lui affidata. La seconda immagine, quella del servo che segue il suo Signore, è una promessa di comunione nella reciproca appartenenza. «Dove sono io, là sarà anche il mio servitore»: Gesù non si ritaglia spazi privilegiati da cui escluderci. Egli è accanto a noi e ci desidera accanto a sé, sempre: mentre si china a lavare i piedi di discepoli non particolarmente brillanti, mentre siede accanto ai peccatori con la medicina della misericordia, quando accoglie i piccoli che non hanno nulla da dare in contraccambio, quando avvicina gli esclusi che nessuno può vedere o toccare, mentre consola chi è nel lutto, mentre nutre folle affamate... In ogni gesto di servizio compiuto accanto al Signore che per primo si è fatto servo, ci è dato di partecipare alla sua signoria d'amore, alla sua dignità regale, alla sua vita gloriosa. Anche in questo caso non si tratta di contare su nostri atteggiamenti eroici, ma sull'invocazione costante e accorata dello Spirito che Gesù ha promesso a chiunque desidera seguire le sue orme, rimaste visibilmente nelle pagine dei vangeli. Il desiderio dei Greci che si sono rivolti a Filippo per vedere Gesù ha il suo compimento: «ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Chiunque vuole vedere Gesù lo deve contemplare elevato da terra sul legno della croce. Qui Egli mostra una gloria tanto diversa da come gli uomini si sono abituati a pensarla e a cercarla, dando credito al principe menzognero di questo mondo, che ci rende estranei e rivali gli uni gli altri. Gesù invece pone davanti a noi la verità del suo amore, che abbraccia ogni nostra fragilità con il dono della sua misericordia e ci invita a condividere il suo trono regale percorrendo fino in fondo la strada del perdono che egli stesso ha percorso. La sua promessa non esclude nessuno ed esige che noi non escludiamo nessuno. A partire da quei Greci che un giorno chiesero di vedere Gesù, non ci sono più stranieri davanti a Lui; dalla croce tutti sono attirati con la forza di un amore che vuol renderci una cosa sola tra noi nel cuore della Trinità. |