Omelia (18-03-2018)
fr. Massimo Rossi
Commento su Giovanni 12,20-33

Era il 24 marzo del 1980, quando l'Arcivescovo di San Salvador, mons.Oscar Romero, oggi Beato, veniva ucciso mentre celebrava la Messa. Da questo tragico anniversario, prende spunto la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri, fissata il 24 marzo, sabato prossimo; per ricordarci che la stagione delle persecuzioni in odio alla fede cristiana non è finita.
Ma non solo in Oriente si rischia quotidianamente la vita per annunciare il Vangelo: un paio di anni fa, precisamente nell'estate del 2016, p.Jacques Hamel venne trucidato dagli integralisti islamici, in un villaggio della Normandia. Di questa notizia, neanche un cenno sulle pagine dei quotidiani... segno che, spesso, il coraggio di testimoniare il Vangelo, financo a morire, viene semplicemente - e colpevolmente! - ignorato. E tanto per informazione, dall'inizio del 2017, sono 11 i sacerdoti missionari uccisi dalla furia cieca del terrorismo, o dalla milizia armata delle varie polizie segrete. A questi nuovi martiri, se ne aggiungono altri: frati, suore, laici, soprattutto catechisti e operatori pastorali. Il cammino dell'ecumenismo riunisce cattolici, ortodossi e protestanti, anche davanti ai persecutori della fede, per i quali non fa differenza appartenere ad una confessione, anziché ad un'altra... quando il comune denominatore, o come dice la Bibbia, la testata d'angolo, è sempre e solo il Cristo.
Il Vangelo di oggi, otto giorni prima della Settimana Santa, ci propone il famoso detto del Signore: se il chicco di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto: alle parole di Gesù, fanno eco quelle altrettanto famose dei primi Padri della Chiesa: "Il sangue dei martiri è semente di cristiani!".
L'innalzamento del Messia sulla croce è la condizione necessaria, per noi, affinché siamo attirati a Lui. Lo afferma Giovanni, richiamando un fatto accaduto molti secoli prima e raccontato nel libro dell'Esodo: il simbolo del serpente di rame issato da Mosè su un'asta, il quale guariva gli Israeliti che, morsi dai serpenti velenosi, lo avessero anche solo guardato.
Il grande mistero della fede che celebriamo ogni domenica e al quale rispondiamo "Annunciamo la tua morte, Signore...." è proprio questo: con la sua morte, Gesù vince la morte!
La natura umana non è in grado di evitare la morte: questo passo drammatico e doloroso è un passo obbligato. Ma c'è morte e morte! con tutto il rispetto per le tragedie che addolorano l'umanità e che attraversano la vita di ciascuno, la morte di Gesù fu un'altra cosa! perché Gesù è un'altra cosa!
Ma ecco la pagina tratta dalla lettera agli Ebrei, forse, il passo più suggestivo e misterioso e meraviglioso di tutto il documento. Con un'audacia che rasenta la temerarietà, lo scrittore ispirato - se ne ignora l'identità... -, dichiara che Gesù aveva bisogno di patire: i dolori della passione lo resero perfetto e, aggiunge san Paolo (cfr. Fil 2), meritevole del nome di ‘Cristo', quel nome che è al di sopra di ogni nome e che incute timore reverenziale solo al sentirlo pronunciare...
Il primo destinatario, il primo beneficiario della croce, fu lo stesso Crocifisso, il quale dovette, anche lui, imparare qualcosa che ha bensì a che vedere con la dignità di figlio, tuttavia non si possiede per nascita, ma si acquisisce per esperienza diretta e personale: l'obbedienza.



Dunque, un figlio, ogni figlio diventa capace di obbedire, obbedendo. Emerge l'aspetto della sofferenza, quale ingrediente imprescindibile dell'obbedienza; non è facile obbedire, mai.
Nel caso di Gesù, le difficoltà (ad obbedire al Padre suo) aumentarono all'inverosimile, per l'ostilità incontrata sul versante degli uomini. Tutto perché il ‘messia' incarnato dal figlio del falegname non rispondeva agli stereotipi (umani) di un messia. Eppure, a questi uomini che rifiutarono il Signore, così come si era presentato loro, che non mostrava la forza e la virilità dell'eroe epico, del superuomo, a questi uomini Gesù aveva promesso fedeltà, prima ancora di assumerne la natura. Prima che a loro, prima che a noi, Gesù aveva promesso a Dio! E proprio perché aveva promesso a Dio prima che a noi, il Signore sopportò dai nostri fratelli maggiori tutte le vessazioni fisiche, psicologiche e spirituali che ben conosciamo e che domenica prossima ripercorreremo ancora una volta, insieme, leggendo il lungo, struggente racconto della Passione.
L'affresco tracciato dal quarto evangelista definisce il destino di morte del Signore una ‘glorificazioné, e ribadisce che la promessa fatta dal Padre a suo Figlio, è per noi: "Questa voce non è venuta per me - dice il Signore - ma per voi".
Infine, la sentenza: "Ora è il giudizio di questo mondo...", vagamente sibillina: si può interpretare in due modi tra loro opposti: il mondo giudica... il mondo è giudicato... Il discorso si complica, se fosse possibile, ancor di più: "il principe di questo mondo sarà gettato fuori": verosimilmente si tratta del diavolo, il quale sul calvario sembra invece avere la meglio...
L'iconografia tradizionale colloca spesso, ai piedi della croce, un teschio; si tratterebbe del teschio di Adamo, colui che tentato dal diavolo, cadde nella sua trappola; ebbene, quel venerdì santo, il primo uomo fu riscattato dall'Ecce Homo, nuovo Adamo, il quale morì, non per colpa, ma per amore. Detto così, sembra una battuta da soap opera di terz'ordine...
Ma, se appena ripensiamo alle parole pronunciate dal Signore durante la cena di addio: "Non c'è amore più grande, dare la vita per gli amici", e consideriamo che sotto la croce c'era Giovanni, amico del cuore del Signore, la morte di Gesù appare in tutta la sua spietata verità, un atto di amore, anzi l'atto di amore per eccellenza.