Omelia (29-03-2018) |
dom Luigi Gioia |
Quale memoria Basta pensarci un attimo per rendersi conto di quanto il cristianesimo tutto intero, la Chiesa, le nostre comunità cristiane con la loro diversità di ministeri e di carismi, l'attività missionaria e caritativa dispiegata dalla Chiesa nel mondo - tutto questo sia stato inaugurato e sia costantemente sostenuto da quattro parole pronunciate da Gesù nel corso della sua ultima cena: in memoria di me (cf. Lc 22,19; 1Cor 11,24-25). Se i primi discepoli non si sono dispersi, se le comunità cristiane hanno cominciato ad edificarsi e a costituirsi è stato sulla scia di questo che non è tanto un comando, quanto un dono, un invito: fate questo in memoria di me. In risposta ad esso i discepoli hanno continuato, anche dopo che Gesù non era più visibilmente con loro, a riunirsi per spezzare il pane e bere al calice, facendo memoria delle promesse di Gesù, interpretandole alla luce della Scrittura. Quello che chiamiamo ‘Nuovo Testamento' è nato in questo modo: per raccogliere e organizzare i ricordi di Gesù, delle sue parole e dei suoi gesti, che i primi discepoli continuarono ad evocare prima in modo orale e poi progressivamente per iscritto durante i primi anni dopo la risurrezione di Gesù. Diverse comunità fecero lo stesso e questo spiega perché si giunse a diverse versioni - i quattro vangeli - della stessa storia. Succede lo stesso quando quattro figli lasciano la casa natale, vanno in paesi lontani, costituiscono una famiglia, e raccontano ai loro figli la storia dei loro genitori. Se, a distanza di anni, i figli mettono questi resoconti per iscritto, ne risultano quattro diverse presentazioni degli stessi ricordi. L'eucaristia non è solo la fonte di unità ma anche di diversità nella Chiesa. Facciamo memoria di lui, continuiamo a spezzare il pane e a bere al calice nelle nostre culture e nei nostri tempi, cioè a trovare modi sempre attuali di discernere cosa questa condivisione comporti riguardo alla presenza e all'azione della Chiesa nella nostra società. In altre parole, continuiamo a cercare di capire cosa sia il ‘questo' a cui si riferisce Gesù quando dice: fate questo in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25). Spesso, ancora oggi, tale invito è interpretato in maniera formalista, estetizzante. Il ‘questo' si riferirebbe al modo di celebrare l'eucaristia che dovrebbe essere permeato di sacralità, solenne, arricchito con il ricorso a metalli preziosi, stoffe pregiate, canti sofisticati ed arcaici. Dovremmo chiederci però in cosa queste celebrazioni ricordino l'umile e semplice pasto intorno ad una tavola che Gesù condivise con i suoi discepoli nella notte in cui pronunciò questa frase. Che l'arte e il rito intervengano nella celebrazione dell'eucaristia come in ogni altra realtà umana è non solo legittimo, ma doveroso. Ma occorre continuare a discernere quali forme artistiche e rituali davvero esprimano il ‘questo' di cui Gesù vuole che facciamo memoria. Il ‘questo' non consiste in una sacralità, una ieraticità, un estetismo che sono di fatto forme attraverso le quali gratifichiamo la nostra vanità, creiamo un divario tra celebranti e partecipanti alla celebrazione, affermiamo il nostro potere. Gesù ha voluto che non ci fosse nessun dubbio possibile riguardo al ‘questo' di cui l'eucaristia deve fare memoria - e Giovanni lo ha capito così bene che nel suo Vangelo ha addirittura osato omettere il racconto dello spezzare del pane nel corso dell'ultima cena e ha riportato solo il gesto della lavanda dei piedi. Quando Papa Francesco stabilì che anche le donne potessero partecipare alla lavanda dei piedi, vi fu una reazione violenta e stizzita in una larga parte dei circoli e dei blog conservatori o ‘tradizionalisti'. Per manifestare la loro ostilità nei confronti di questa misura molti decisero che non avrebbero più fatto la lavanda dei piedi durante la celebrazione eucaristica del giovedì santo. Si tratta di una reazione estrema, ma rivelatrice riguardo alla nostra tentazione permanente di ridurre il ‘questo' di cui far memoria ad una versione del cristianesimo identificata alla nostra visione del mondo e della salvezza. Una tentazione questa che l'evangelista Giovanni acutamente prevede e illustra attraverso l'atteggiamento di Pietro, cioè proprio di colui che diventerà il simbolo della dimensione ministeriale e di autorità nella Chiesa. Pietro vuole rifiutare di farsi lavare i piedi - come i tradizionalisti vogliono omettere la lavanda dei piedi - perché non tollera l'audacia, la novità del ‘questo' di cui Gesù chiede ai suoi discepoli di fare memoria: Tu non mi laverai i piedi, mai (Gv 13,8). Paradossalmente, Pietro fa più fatica a lasciarsi lavare i piedi che a lavarli lui stesso. Preferiamo una salvezza che possiamo controllare, anticipare, realizzare - e purtroppo inconsapevolmente strumentalizzare - piuttosto che accettare di accoglierla giorno dopo giorno dal Signore, lasciandoci condurre lì dove non ci saremmo mai aspettati di dover andare: In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi (Gv 21,18). In ogni celebrazione eucaristica, dunque, Gesù ci ripete la stessa domanda che fece ai suoi discepoli: Capite che cosa ho fatto per voi? (Gv 13,12). L'autenticità del cristianesimo dipende non solo dalla nostra fedeltà all'invito di Gesù a fare questo in memoria di me (Lc 22,19), ma anche dalla onestà, l'intelligenza, l'immaginazione, la creatività, la libertà con la quale continueremo a rispondere al suo Capite che cosa ho fatto per voi? (Gv 13,12). Solo in questo modo, mangiando il pane e bevendo il sangue, celebreremo davvero il Signore e non noi stessi; solo in questo modo annunceremo autenticamente la morte del Signore, finché egli venga (1Cor 11,26). Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, "Educati alla fiducia. Omelie sui vangeli domenicali. Anno B" ed. Dehoniane. Clicca Clicca qui |