Omelia (30-03-2018) |
dom Luigi Gioia |
L'ombra ingombrante Le prime battute del racconto della passione di Gesù del vangelo di Giovanni possono essere accostate a due altre scene decisive della storia della salvezza, la prima nel libro della Genesi, nella quale Dio conversa con Adamo ed Eva e la seconda in Esodo, dove Mosè incontra il Signore in un roveto ardente. Il legame con il libro della Genesi è suggerito non solo dalla località -un giardino in entrambi i casi- ma soprattutto dalla tragica e persistente incomprensione in virtù della quale Dio e l'umanità pur recandosi nello stesso luogo, pur cercandosi vicendevolmente, continuano a non incontrarsi o piuttosto a scontrarsi. Quando nel giardino Dio viene a cercarci chiedendoci dove sei (Gn 3,9), ci nascondiamo per paura di lui; quando siamo andati noi a cercarlo nel giardino del Getsemani è stato per tradirlo, arrestarlo, eliminarlo: Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?» (Gv 18,4). Il giardino del Getsemani era un luogo dove Gesù andava spesso: Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c'era un giardino... Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli (Gv 18,1-2). Da quando avevamo dovuto essere allontanati dal giardino, Dio non aveva cessato di ritornarvi, di vagarvi, come un amato al quale manca terribilmente l'amata continua a ripercorrere con il pensiero o fisicamente i luoghi nei quali sono stati felici insieme. Dio aveva continuato ad attenderci in quel giardino, ma quando finalmente siamo ritornati a lui, non è stato per riconciliarci con lui, ma per consumare il tradimento iniziale, questa volta non solo disobbedendogli o evitandolo, ma in un ultimo parossistico tentativo di impossessarci di lui per eliminarlo una volta per tutte dalla nostra vita e dalla nostra storia. Se vi è un tratto comune della storia dell'umanità, soprattutto negli ultimi secoli, è proprio questo: vogliamo Dio morto, disfarci della sua ombra ingombrante, perché solo in questo modo crediamo di poter diventare artefici del nostro destino una volta per tutte. Il Signore è cosciente di questo rischio, ma non rinuncia alla sua volontà di ristabilire la relazione con noi, di attenderci, di venirci incontro: non si nasconde, come avevamo fatto noi al suo arrivo nell'Eden, ma ci viene incontro e ci chiede Chi cercate? (Gv 18,4). Spera di sentirci rispondere: "Cerchiamo Dio, cerchiamo il Padre" e sarebbe pronto come il padre del figliol prodigo a venirci incontro, abbracciarci, restituirci la nostra dignità di figli, uccidere il vitello grasso e cominciare a festeggiare con noi. Invece cerchiamo solo il Dio da temere, quello che ci incute paura, quello di fronte al quale indietreggiamo a cadiamo a terra (Gv 18,6), perché questa immagine conferma le nostre false proiezioni su di lui e giustifica il nostro rifiuto. Per due volte Gesù ci chiede Chi cercate (Gv 18,4.7), entrambe le volte gli rispondiamo Gesù il Nazareno (Gv 18,5.7), e la replica di Gesù è ogni volta Sono io oppure Io sono (Gv 18,5.8; Gv 13,19). L'evangelista Giovanni ha chiaramente l'intenzione di fare eco al passaggio del roveto ardente, nel quale la risposta alla domanda di Mosè relativamente al nome del personaggio che gli sta parlando è la stessa: Mosè disse a Dio: Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Mi diranno: Qual è il suo nome?. E io che cosa risponderò loro? Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono! E aggiunse: Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi (Es 3,13-14). Il senso di questa risposta può essere interpretato in molti modi, ma il più probabile è che essa sia in realtà una non risposta, perché Dio non può dare il suo nome - il nome infatti, nella mentalità ebraica, permette di esercitare un controllo sulla persona, e questo con Dio non è possibile. Il solo modo di conoscerlo è entrare in una relazione di alleanza con lui, seguirlo e vivere con lui, dimorare con lui (cf. Gv 1,38s). Quando quindi Giovanni mette sulle labbra di Gesù questa stessa risposta Io sono (Gv 18,5), vuole indicare quanto impossibile sia avere accesso a Dio in Gesù se ci si accosta a lui con l'intenzione di ‘catturarlo', possederlo, impadronirsene. Dio resta Signore, inaccessibile, intoccabile e lo testimonia il dettaglio che segue questa risposta di Gesù: indietreggiarono e caddero a terra (Gv 18,6). Anche quando vengono in forza per arrestarlo, non avrebbero nessun potere su di lui se egli non avesse deciso di lasciarsi prendere e uccidere: Gesù venne loro incontro (Gv 18,4) e quando Pietro, intempestivo come sempre, cerca di reagire, Gesù gli risponde: Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo? (Gv 18,11). Dio non ha bisogno di difensori, meno ancora di apologeti. Quando vogliamo ucciderlo -fisicamente, filosoficamente o dal punto di vista relazionale- non teme di lasciarci fare. E ciò è vero oggi più che mai. Il panorama filosofico e culturale moderno risulta in gran parte dall'agghiacciante ma lucido e profetico verdetto di Nietzsche: Dio è morto. Sembra una bestemmia intollerabile mentre invece è forse un bene, forse può essere l'occasione di una purificazione della nostra fede. Il Dio che il pensiero moderno vuole morto è il risultato delle nostre proiezioni, delle nostre ansie, delle intollerabili contraffazioni escogitate lungo i secoli dalle nostre istituzioni civili ed ecclesiali. Il Dio che muore è forse l'Io sono (Gv 18,5) di questa pagina del vangelo di oggi, la proiezione di fronte alla quale indietreggiamo e cadiamo a terra, ma della quale Gesù immediatamente si disfa per rivelarci la sua vera identità. Il vero Dio infatti, il Dio che non può morire, è proprio quello che si offre per lasciarsi tradire, rinnegare, torturare, giudicare ingiustamente e crocifiggere, perché solo in questo modo può aiutarci a disfarci della nostra falsa immagine di lui, perché solo così può persuaderci del suo amore e condurre anche noi, eredi di Nietzsche, a non poter evitare, vedendolo spirare, di esclamare con il centurione Davvero quest'uomo era Figlio di Dio (Mc 15,39; Mt 27,54). In questo senso, la morte di Dio non solo non segna la fine della nostra relazione con lui, ma diventa ciò che la rende possibile. Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, "Educati alla fiducia. Omelie sui vangeli domenicali. Anno B" ed. Dehoniane. Clicca Clicca qui |