Omelia (01-04-2018) |
dom Luigi Gioia |
Cieli e terra nuovi Occorre lasciarsi sfidare e interrogare dall'affermazione di Paolo: se Cristo non è risorto vuota è la vostra fede (1Cor 15,14). Per Paolo tutto verte intorno alla risurrezione e la qualità della nostra vita cristiana dipende da quanto crediamo in essa, da quanto riponiamo in essa tutta la nostra speranza. Questo non è forse sempre vero nella realtà. Quando ci è chiesto ragione della nostra fede (1Pt 3,15), ciò su cui essa è fondata, spesso rispondiamo genericamente che crediamo in un Dio che si occupa di noi o in un Dio che ci ha tanto amato da dare la propria vita per noi o ancora che può tutto e via dicendo. La risurrezione non ci verrebbe spontaneamente in mente come la chiave di volta della nostra fede. Per i primi cristiani invece, l'accesso alla fede risultava da un kerigma, un annuncio, un messaggio nel quale si proclamava che Gesù è Signore (At 10,36) perché era risorto. La risurrezione era la prova che Gesù era Signore, cioè Dio. La nostra esitazione nei confronti della risurrezione trova una eco nella frase conclusiva del vangelo di oggi, quando è detto che i discepoli non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti (Gv 20,9). Possiamo interpretare questa frase in due modi. In un primo senso, essa vuol dire che i discepoli avevano ancora bisogno di vedere loro stessi Gesù risorto, che lui stesso cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegasse loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (Lc 24,27) e poi soprattutto della venuta dello Spirito Santo che li avrebbe introdotti nella verità della risurrezione. Ma in un secondo senso, questa frase resta vera anche dopo tutto questo. I discepoli, e noi con loro, continuiamo a non essere capaci di riconoscere il risorto, a non capire veramente la risurrezione, a non apprezzarne tutta la novità, l'importanza, la centralità per la nostra vita di fede. Ne abbiamo una conferma nel fatto che pur avendo visto il risorto e mangiato con lui diverse volte, i discepoli continuano ad esitare a riconoscerlo ogni volta che di nuovo appare loro. Questa esitazione, questa difficoltà a comprendere, non deve sorprenderci, perché la risurrezione di Gesù non è come quella di Lazzaro, non è un semplice ritorno alla vita di prima. Il modo più adeguato di rappresentarsela è quello di vedervi con Pietro cieli nuovi e terra nuova (2Pt 3,13), secondo la frase che l'Apocalisse mette sulle labbra del risorto: Ecco io faccio nuove tutte le cose (Ap 21,5). Come la prima creazione è tratta dal nulla, è un inizio assoluto, così con la sua risurrezione Gesù riprende tutto il creato, ricapitolandolo in lui (Ef 4,10), e gli infonde un nuovo dinamismo, lo rimette in movimento trasformandolo e orientandolo di nuovo verso la destinazione nella quale trova realizzazione e compimento, vale a dire il ritorno nel seno del Padre. Questo è confermato figurativamente nella pagina evangelica odierna. La morte di Gesù aveva traumatizzato i discepoli, li aveva lasciati storditi, inerti, confusi, incapaci di prendere nessuna iniziativa. Possiamo rappresentarceli seduti, silenziosi, paralizzati, rinchiusi nel cenacolo. Finché ad un tratto tutto si mette in movimento: Maria di Magdala corre dagli altri discepoli, Pietro e il discepolo che Gesù amava escono, corrono anche loro: Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce (Gv 20,4). Uno arriva prima ma non entra, l'altro invece entra, osserva - improvvisamente sono attenti, aprono gli occhi, si interrogano, riprendono vita. Ciò che li mette in moto non è ancora una chiara percezione del significato degli eventi che stanno vivendo. Al contrario, il Vangelo ce li mostra perplessi. Per far correre Maria basta solo la pietra del sepolcro aperta; Giovanni vede solo dei teli sparsi; Pietro entra e osserva la stessa scena, e solo alla fine ci è detto di Giovanni che ‘vide e credette'. Se in questa pagina cerchiamo di individuare il segno distintivo della risurrezione non lo individuiamo né nella pietra rotolata, né nei teli sparsi, né nel sudario avvolto in un luogo a parte, neppure nel sepolcro vuoto - ma prima di tutto nel fatto che qualcosa di misterioso, di inatteso si è prodotto, che l'atmosfera in qualche modo è cambiata radicalmente, che la trama della storia che sembrava irrimediabilmente interrotta rimbalza inaspettatamente. In un certo senso dunque la realtà della risurrezione resta nascosta e credere in essa vuol dire accettare che parte di ciò che dà senso alla nostra vita e alla nostra fede sia anche esso misterioso, invisibile, come ce lo dice Paolo: la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3). Non ci sorprende dunque costatare quanto ci resti difficile capire la risurrezione, sia quella di Gesù che quella promessa a ciascuno di noi quando ci è detto: Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria (Col 3,4). La fede in essa però richiede che discerniamo la sua potenza già adesso misteriosamente all'opera nella nostra vita, riconoscibile in un anelito, una sete, una sorta di tensione che deriva dalla nostra consapevolezza di essere stati conquistati da Cristo: sono stato conquistato da Cristo Gesù;... dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,12-14). Nel caso della risurrezione siamo invitati allo stesso atteggiamento che fa di noi discepoli autentici di Gesù: seguirlo, anche quando non lo capiamo interamente. Capiremo quando saremo con lui, già adesso però crediamo che siamo risorti con lui e cerchiamo le cose di lassù, rivolgiamo il pensiero alle cose di lassù (Col 3,1-2), non per evadere le nostre responsabilità sulla terra, non per gioire meno delle realtà della nostra vita presente, ma per orientarle tutte verso la meta nella quale trovano il loro vero senso e la loro pienezza. Il testo dell'omelia si trova in Luigi Gioia, "Educati alla fiducia. Omelie sui vangeli domenicali. Anno B" ed. Dehoniane. Clicca Clicca qui |