Omelia (30-04-2018) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Sofferenza divina per amore Essere guariti e risollevati in virtù delle sofferenze di qualcun altro è qualcosa che la Bibbia descrive come evento intenzionale non raro. Il profeta Isaia (capp 52 - 53) ci parla del Servo Sofferente, "trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità" che ha procurato agli Israeliti la guarigione in forza delle sue ferite gravose. "Dalle sue piaghe siamo stati guariti" è la frase pronunciata a suo proposito che viene ripresa anche da Pietro. Si tratta propriamente del popolo d'Israele, rappresentato come un singolo individuo umiliato e vilipeso, ma la tradizione cristiana ha identificato questo passo isaiano nel Signore Gesù Cristo, peraltro prefigurato anche da Zaccaria (12) come "colui che hanno trafitto", verso il quale tutti volgeranno lo sguardo. Quello che è certo è che Gesù non è lontano dalle immagini del Servo Sofferente, poiché è proprio vero che ha affrontato deliberatamente, senza opposizione, senza restrizioni, ogni sorta di patimento e di supplizio, esponendo la propria carne al ludibrio e all'ignominia, sottomesso com'è a leggi ingiuste di condanna alle quali si sottomette in piena libertà e consapevolezza. Gesù infatti potrebbe superare facilmente l'ostacolo della cattura, anche chiamando in causa il Padre che gli concederebbe addirittura l'ausilio di dodici legioni di angeli, potrebbe ribattere solide obiezioni alle accuse che gli vengono mosse durante il processo ed evitare la condanna a morte anche in forza del fatto che essa viene irrogata nell'illegalità. Quale prefetto di una provincia romana, Pilato ha infatti il compito preciso di liberare gli innocenti (stando alla legge universale romana) e condannare i veri colpevoli e siccome in Gesù non esistono gli estremi per la condanna a morte dovrebbe liberarlo, vincendo la resistenza della folla che vuole la sua crocifissione. Invece cede al tumulto dei Giudei presenti e fa liberare un assassino per condannare a morte Gesù. Questi per l'appunto non oppone resistenza, oltraggiato non risponde con oltraggi e soffrendo non minaccia vendetta, ma rimette la sua causa a colui che giudica saggiamente (1Pt 2, 23 e ss). Sceglie di affrontare lancinanti dolori e atrocissime sofferenze quali quelle dei chiodi che infilzano le carni e la sospensione del costato a lungo sul legno, che opprime la respirazione provocando collasso e asfissia. E in in Gesù non vi è il cosiddetto "istinto di sopravvivenza" per il quale all'ultimo momento si decide di continuare a vivere, di salvarsi. Prende posizione contro il dolore e sfida perfino il sentimento di abbandono da parte del Padre. Insomma accetta deliberatamente e con cognizione di causa di morire sulla croce, perché consapevole che questo è per noi indispensabile. I patimenti atroci ed efferati a cui si sottopone saranno medicina per noi. Grazie infatti alle sue sofferenze noi siamo risollevati dai nostri peccati, affrancati dalla comune schiavitù che da sempre ci caratterizza dandoci illusioni di libertà e i suoi patimenti diventano di conseguenza per noi motivo di sollievo e di salvezza. Si realizza in Gesù quello che aveva predetto il profeta Isaia: appunto le sue piaghe ci guariscono e la sua morte in croce ci mette in condizioni di avere dei meriti. Sulla croce Cristo addossa su di sé tutte le pene che avremmo dovuto subire noi per i nostri peccati e per le nostre mancanze, ci dischiude la via alla riconciliazione che da parte nostra avevamo perduto, dischiude la comunione con Dio e per ciò stesso realizza la nostra salvezza, ottenendoci al presente la vita e la realizzazione e consentendoci riguardo al futuro la possibilità del paradiso e la vita senza fine. Obiettivi che non avremmo mai potuto raggiungere contando sulle sole nostre forze. Ma se la guarigione dai nostri mali avviene in virtù delle piaghe di Cristo sulla croce, ciò si deve semplicemente al fatto che in Cristo Dio spasima davvero per l'umanità e nel suo amore sconfinato e sincero non si arrende alle nostre ostinazioni e alle nostre persistenze nel male. Se l'uomo è peccatore, l'amore di Dio interviene proprio sul peccato, lasciando che il peccatore si salvi. Sempre l'amore sceglie i mezzi impropri e assurdi quanto al nostro modo di pensare, ma appropriati per chi è davvero onnipotente. Solo l'amore può legittimare tanto eroismo di immolazione. De Andrè, da ateo miscredente nonostante non accettasse la divinità di Cristo, non poteva non osservare che "ma inumano è pur sempre l'amore di rantola senza rancore, perdonando con ultima voce chi lo uccide fra le braccia di una croce". Amare fino all'inverosimile accettando un ignobile supplizio a favore di tutti gli uomini non può essere appannaggio di un semplice uomo e non appartiene alle nostre categorie mentali. Deve necessariamente essere prerogativa di un Dio straordinario. E in effetti il Dio di Gesù Cristo è ha la straordinaria grandezza di assumere ciò che per noi è assurdo e inconcepibile, ossia un'ingiusta condanna e un'atroce tortura. Anche le nostre ferite, configurate a quelle di Cristo, possono guarire i malesseri nostri e di altri. Ciò avviene quando ci immedesimiamo nella croce ogni qualvolta ci sorprendano le sofferenze e i patimenti. Sono queste in effetti la nostra croce destinata a risollevare altri per poi diventare risurrezione. |