Commento su Gv 19,1-16
Lectio
1Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
Pilato rientra nel pretorio e prende Gesù. E' questo infatti il senso letterale del verbo che troviamo nell'originale greco, lambanein che ha una connotazione violente. Il prefetto aveva detto "prendetelo voi" (18,31); ripeterà questa ingiunzione più avanti aggiungendo "crocifiggetelo". Qui è lui stesso che prende Gesù e gli fa subire la flagellazione. Perché flagellare Gesù? Per indebolire il condannato e accelerare la sua agonia. Giovanni utilizza il verbo mastigoo, flagellare, che echeggia Isaia 50,6 riferito al servo di JHWH sofferente.
Pilato nel flagellare Gesù ha un'altra intenzione, quella di mostrare ai sommi sacerdoti una figura pietosa, un essere ridotto al nulla; manifesterò in questo modo quanto sia assurda ai suoi occhi l'idea di un "re dei Giudei". Se umilia il prigioniero innocente è per umiliare l'orgoglio nazionale di coloro che pretendevano di imporgli la loro volontà.
2E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Anche le derisioni dei soldati contribuiscono alla stessa strategia: dopo la flagellazione il prigioniero sta per essere esposto alla vista dei Giudei con un abbigliamento regale. La corona di spine non sembra essere uno strumento di tortura ma una parodia della corona, chiamata "irradiante" portata dai sovrani orientali o ellenisti: le sue punte indicavano l'irraggiamento universale del personaggio. Quanto alla "veste di porpora", colore imperiale, si tratta probabilmente di un mantello scarlatto da soldato.
3Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Alla maniera di un rituale di corte, i soldati avanzano verso Gesù a più riprese dicendo "Salve, re dei Giudei!". I loro gesti corrispondono alle pantomime satiriche che si recitavano nei circhi romani o anche al passatempo del "re deriso" che si svolgeva durante i Saturnali. La finale, riguardante gli schiaffi, non si adatta molto a una parodia di intronizzazione, ma viene giustificata dal contesto generale. Il termine greco è un'altra eco del poema del servo sofferente (Is 50,6).
4Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Uscito dal pretorio, il prefetto provoca dapprima una suspence: annuncia ai sommi sacerdoti rimasti in attesa che sta per far comparire davanti a loro il prigioniero, e questo per far comprendere che lo giudica non colpevole.
5Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l'uomo!».
Gesù allora esce, rivestito delle insegne regali con cui l'hanno conciato i soldati e Pilato lo esibisce "ecco l'uomo!". Facendo ciò Pilato si vuole prendere gioco dei sommi sacerdoti. Pensando che l'imputato sia inoffensivo per la sicurezza dell'Impero, lo presenta sfigurato come oggetto di derisione. Egli mette così in ridicolo l'attesa messianica di Israele. Per Giovanni l'intento è un altro. Posto di fronte al mistero paradossale di Cristo, il lettore credente è invitato a riconoscere in questo uomo suppliziato, ornato di vesti regali, il maestoso Signore a cui ha dato la sua fede.
L'espressione "Ecco l'uomo" ci riporta a 1Sam 9,17, quando Dio indica a Samuele colui che avrebbe dovuto ungere come re di Israele: Saul e gli dice "Ecco l'uomo che governerà il mio popolo".
6Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
I Giudei reagiscono con violenza all'umiliazione inflitta loro dal sarcasmo di Pilato: il loro grido raddoppiato "Crocifiggilo, crocifiggilo" manifesta l'intensità del suo odio. A gridare sono i sommi sacerdoti e le guardie. Giovanni vuole evitare una generalizzazione abusiva che attribuiva all'intero popolo la volontà di uccidere Gesù.
Pilato tiene testa al furore delle autorità giudaiche con una sferzante ironia: "Prendetelo e crocifiggetelo voi". Sa bene che non possano farlo, perché infliggere la crocifissione dipendeva solo dal potere romano (18,31).
7Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
I Giudei non si ingannano sull'inutilità di ciò che viene loro offerto: non si impadroniscono di Gesù. Ma davanti al rischio di una assoluzione oppongono un nuovo argomento in vista della condanna del prigioniero, quello che in realtà li spinge e che fino ad ora hanno taciuto: il delitto di bestemmia. Gesù "si è fatto Figlio di Dio". Gv integra in questo modo nel racconto del processo romano l'accusa religiosa che nella tradizione sinottica è stata oggetto del processo davanti al sinedrio.
8All'udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Per Pilato il motivo invocato dai Giudei è inquietante. Perché? Una prima spiegazione si fonda sul fatto che i sommi sacerdoti hanno messo avanti la Legge giudaica. Gli amministratori delle province romane erano tenuti ad onorare le esigenze delle leggi e dei costumi locali. Il prefetto che ignorava l'accusa religiosa contro Gesù scopre che rischia di fare un passo falso e di ricevere una denuncia. La sua situazione era diventata vulnerabile dopo che nell'anno 31 era caduto in disgrazia Seiano, il suo protettore a Roma, a cui doveva la nomina. Nella prospettiva della perdita del potere comincerebbe dunque a questo punto il ricatto dei Giudei che minacciano Pilato di togliergli il favore di Cesare (19,12).
Un altro motivo potrebbe essere di tipo religioso-superstizioso. Pilato era romano, formato a una certa razionalità, però non era esente dal timore nei confronti della figura dell'uomo divino dotato di poteri misteriosi. Questo suo timore apre a un secondo dialogo con Gesù.
9Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta.
Questo secondo colloquio prolunga il primo: alla rivelazione che Gesù è il Testimone della verità, venuto nel mondo, corrisponde quella della gravità del rifiuto nei suoi confronti. La domanda di Pilato per il lettore credente evoca il mistero del Figlio. Il prefetto invece vuole sentire dall'accusato ciò che i sommi sacerdoti hanno dichiarato, cioè che egli si attribuisce un'origine divina. Gesù non risponde alla domanda perché viene posta da un uomo che rifiuta di ascoltare la verità.
10Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Pilato, indignato del fatto che si resista ad un delegato di Cesare, reagisce con l'intimidazione: si avvale del potere di vita e di morte che detiene sull'accusato.
11Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall'alto.
Gesù pronuncia due affermazioni collegate l'una all'altra: la prima situa nella verità il potere di Pilato su di lui, la seconda il suo peccato. L'apertura verso l'alto caratterizza la prima frase. Il potere di Pilato su Gesù non è assoluto. Gli viene dato da Dio in quel preciso momento. Perché? Perché giunta l'ora in cui Dio lascia che si compia la sorte del Figlio rifiutato dagli uomini.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
La seconda frase parla un altro soggetto che ha consegnato Gesù a Pilato e ha commesso perciò un peccato ancora più grande. Si pensa subito a Giuda, ma sono le autorità giudaiche che hanno consegnato Gesù nelle mani di Pilato. L'accusato diventa il giudice nei confronti di Pilato e dei sommi sacerdoti.
12Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Le parole di condanna di Gesù forse hanno convinto Pilato, che cerca di liberarlo. Ciò sottolinea il fatto che Pilato lo considerasse innocente. I Giudei però non ne vogliono sapere. Per raggiungere il loro scopo i sommi sacerdoti si appellano ora alla legge romana: se Pilato si mostra favorevole a un individuo che usurpa la dignità regale non è "amico di Cesare". Questa espressione può indicare un titolo ufficiale riservato agli alti dignitari dell'Impero e forse ottenuto da Pilato, oppure indica semplicemente la fedeltà nei confronti dell'imperatore. Il ricatto non può essere più esplicito: se rilascia Gesù, il prefetto si rende colpevole di lesa maestà, crimine che Tiberio punisce senza pietà.
13Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
L'ultima scena del dramma si svolge all'esterno e riunisce nuovamente tutti gli attori. Pilato, fatto venire Gesù, prende posto sul seggio elevato che veniva occupato dal giudice quando pronunciava la sentenza. Il gesto basta a indicare che ci si appresta a chiudere il processo. Il carattere ufficiale dell'atto viene sottolineato dalla menzione dei due nomi, greco e aramaico che designano la corte vicina al pretorio.
14Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno.
Anche il momento viene indicato con esattezza: la vigilia di Pasqua, il 14 nisan, il giorno in cui Gesù muore. A differenza dell'indicazione di luogo, la precisazione cronologica è espressa in una frase a se stante, come un commento dell'evangelista sull'avvenimento che si svolge. Il valore simbolico di tale indicazione poggia sulla menzione del mezzogiorno, fornita per evocare la prospettiva pasquale dell'avvenimento. Infatti a partire da mezzogiorno cominciava nel Tempio il sacrificio degli agnelli destinati al pasto rituale della notte. Originariamente praticato in ogni famiglia, questo sacrificio doveva avvenire al crepuscolo. Ai tempi di Gesù era affidato ai sacerdoti e a causa del numero degli animali, iniziava quando il sole aveva raggiunto lo zenith e cominciava a scendere.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Seduto sul seggio curiale il prefetto non pronuncia una vera e propria sentenza, ma gioca con le parole. Presenta l'accusato incoronato di spine, con la veste di porpora e proclama: "Ecco il vostro re", confermando in questo modo il capo d'accusa che è stato oggetto dell'interrogatorio del prigioniero, il crimine di lesa maestà denunciato dai sommi sacerdoti. Ma la formulazione è oltraggiosa nei confronti dell'uditorio, il sarcasmo è evidente. Tuttavia, senza saperlo, Pilato ha proclamato la verità confessata dalla fede. Il termine re riporta al Messia atteso da Israele e anche le rivelazioni fatte da Gesù riguardo la propria regalità. Qui si giunge al culmine Cristologico del racconto.
15Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Dopo le grida dei convenuti che, eccitati, richiedono furiosamente la morte di Gesù, Pilato insiste nella provocazione: "devo crocifiggere il vostro re?". La domanda è sarcastica e insidiosa. Porta i sommi sacerdoti a formulare essi stessi ciò che con i suoi ripetuti sarcasmi aveva voluto dimostrare.
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Essi infatti escono con questa affermazione completamente assurda per coloro che officiano nel Tempio e avevano appena invocato la Torah, la loro legge. Presa in senso assoluto questa parola rinnega la sovranità di Dio su Israele e perciò rinnega la fede giudaica in Dio, unico re del popolo dell'Alleanza, fede celebrata proprio nella liturgia pasquale. Letta nel contesto significa che i sommi sacerdoti rinnegano piuttosto l'attesa messianica. Però in fondo le due cose coincidono. Rifiutare Gesù significa non riconoscere Dio stesso.
16aAllora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi presero Gesù
Dopo aver ottenuto la resa esplicita dei Giudei alla supremazia romana, e dopo aver prevalso su quelli che l'avevano molestato e minacciato, Pilato consegna dunque loro il prigioniero, di cui si è servito per umiliare il loro orgoglio nazionale. Ritorna il verbo consegnare che sta punteggiando tutto il racconto della Passione. Di fatto Gesù non fu consegnato ai sommi sacerdoti, ma fu portato via a forza dai soldati romani, ma questa espressione sottolinea di nuovo che sono i sommi sacerdoti i principali responsabili della sua morte.