Omelia (22-04-2018) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Giovanni 10,11-18 Oggi, Domenica del Buon Pastore, in tutta la Chiesa si celebra la 55° Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni; sappiamo che l'idea di vocazione è stata legata a doppio nodo alla scelta sacerdotale e di consacrazione religiosa. Fino a ieri l'altro, pensare alle vocazioni e pensare a frati e preti era la stessa cosa. Non è da molto che la Chiesa ha allargato la propria visuale, abbandonando certi schemi rigidi e, confessiamolo, non pochi stereotipi pesantemente maschilisti, per assumere un'idea più ampia di vocazione e, anche questo va detto, più in sintonia con la visione cristiana della vita. Siamo solo all'inizio di questo cammino di conversione integrale che la nostra amata e odiata Chiesa sta percorrendo, tra slanci coraggiosi e clamorose battute d'arresto, impennate profetiche e patetici ritorni al passato... Il tema, a dir poco scottante, a tratti scabroso, è un esame di coscienza di categoria, se così si può dire, e lo dico... La marcata impronta clerical maschilista assunta dalla Chiesa fin dai primi secoli costituisce uno solo dei due binari sui quali ha viaggiato veloce e sicura - beh, veloce mica tanto! -per venti secoli... Il secondo binario, inutile negarlo, è il potere. Le scienze umane, dall'antropologia alla fenomenologia, dalla psicoanalisi alla sociologia, hanno ampiamente mostrato le corrispondenze e le implicazioni tra maschilismo e potere. Volendo risalire il vasto fiume della Rivelazione, la Bibbia affonda le sue radici in una cultura caratterizzata dalla presenza ancestrale del cosiddetto maschio (dominante) alfa; se appena scorriamo i primi versetti della Genesi, al capitolo 3, in pieno racconto della creazione, tra le conseguenze del peccato d'origine, c'è appunto la soggezione della donna all'uomo, che lo scrittore ispirato ha così descritto: "Il Signore Dio disse alla donna: Moltiplicherò i tuoi dolori le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà." (v.16). In questi ultimi cinquant'anni, dal Concilio in poi - in confronto a venti secoli di storia, che saranno mai 50 anni? e tuttavia non son neppure pochi! -, la Chiesa ha intuito che proseguendo il suo viaggio su questo binario, avrebbe raggiunto presto il capolinea... Sulla spinta delle successive rivoluzioni, o primavere, che nel volgere di un secolo, hanno profondamente mutato gli equilibri tra i sessi, a livello familiare, professionale, culturale, anche la Chiesa ha preso maggiore coscienza che il mondo religioso è popolato da donne, più che da uomini, e che il primato del maschio non è più un dogma teologico, né un apriori filosofico... Che il contesto religioso sia popolato per lo più da donne, non è una novità; è sempre stato così! Nelle culture antiche, l'istruzione religiosa (dei figli) era impartita dalla madre. Per converso, nei luoghi di culto, il protagonista era ed è ancora il maschio. Moschee, sinagoghe, chiese cristiane, prevedevano un luogo più discreto e appartato, il matroneo, ove le donne assistevano, opportunamente nascoste, alla liturgia. In talune religioni, compresa la nostra, assistiamo ancora oggi a questa singolare separazione tra devozioni prettamente femminili - basti pensare a taluni uffici funebri affidati da sempre alle pie donne, come l'animazione col canto dell'ultimo viaggio del defunto verso il cimitero - e culto pubblico, tassativamente presieduto dalla figura virile del pastore. Questo e altro ancora, a proposito della differenza - discriminazione? - presente nella Chiesa tra uomo e donna, nonostante, ripeto, la preponderanza femminile delle forze in gioco. Perdonate questo lungo cappello a margine della Giornata Mondiale delle Vocazioni; almeno una volta, ho ritenuto necessario sfiorare il tasto, il quale, ahimé, produce sempre dolenti note... Per fortuna, la persona di Gesù si tenne prudentemente ai margini della questione, assecondando peraltro la tradizione corrente. Chissà se in un futuro magari remoto le cose cambieranno... Mah... La similitudine del buon pastore la troviamo solo nel quarto Evangelo: ed è un modo suggestivo e originale, per definire le coordinate della relazione di Gesù rispettivamente con gli uomini e col Padre. Nell'opera giovannea, Gesù resta il Signore della storia, protagonista incontrastato della vicenda, colui che dà la vita quando vuole e la riprende quando vuole. Sul versante degli uomini, la persona del Figlio di Dio non è condizionata dal comportamento di coloro che lo circondano: lo accolgano oppure no, lo seguano oppure no, lo amino o lo tradiscano, il Verbo incarnato ha una missione da compiere e la porterà a compimento; per l'apostolo che Egli amava, la missione del Cristo, non è morire in croce, ma essere innalzato, glorificato; e in questo innalzamento, in questa glorificazione, Egli rivela l'amore a dir poco scandaloso del Padre. Come un generale vittorioso, fin dalle prime battute del Prologo, Cristo celebra i suoi trionfi, percorrendo le strade della Giudea e della Galilea. E strada facendo, parla, insegna, guarisce... Ne emerge un ritratto assolutamente inedito e per certi aspetti inquietante, misterioso, del Re dei re, come Lui stesso si definisce nel dialogo con il governatore romano Ponzio Pilato. Di fronte a Lui, le potenze del male sembra non abbiano alcun ascendente, alcun effetto, nonostante le apparenze! Incarnato, certo, nato al mondo, certo, uno di noi, certo,... il Cristo di Giovanni resta tuttavia un altro rispetto a noi, il viso impassibile del Pantocratore, così come lo ritraggono le icone, e però capace di sentimenti di straordinaria intensità, che nessun uomo sarebbe in grado di provare. Per questo ci è pastore e maestro: la voce inconfondibile, lo sguardo dolce e disarmante, la mano ferma. Per questo il Padre lo ama. E il male se ne fugge inorridito, mentre professa la fede in Lui: "Tu sei il Cristo, tu sei il Santo di Dio.". |