Omelia (15-03-2018)
don Cristiano Mauri
Malafede non avrai il mio scalpo

Di fronte alla contestazione Gesù produce testimoni a suo favore.

O meglio, Un Testimone - «un altro» - veritiero e perfettamente credibile, che resta però inafferrabile.

Si intuisce infatti che si tratta del Padre suo, la cui testimonianza non è facile da cogliere con i criteri del mondo.

Propone così altre tre attestazioni, nell'ordine di ciò che è più facilmente conoscibile e nelle quali si può scorgere e intuire la testimonianza di quell'«Altro».

La prima è di Giovanni Battista. Se i Giudei l'avessero ascoltato, avrebbero comunque intrapreso la via della salvezza, ma così non è avvenuto.

Il loro ascolto è stato effimero: si sono avvicinati alla sua "luce" per poco e se ne sono rapidamente allontanati.

La seconda viene dalla «opere» che Gesù compie.

Sono una testimonianza più grande e di qualità superiore rispetto alla prima, per il fatto che sono in obbedienza a un mandato ricevuto da Dio. In esse dobbiamo leggere il «dare la vita» di cui Gesù ha parlato nei versetti precedenti.

In definitiva il vero testimone è il Padre che ha inviato il Figlio, nel quale si incarna la presenza stessa di Dio.

Il popolo però, insieme alle sue autorità, non Lo riconosce e non Lo ascolta.

La Sua parola non dimora in loro poiché non accolgono la rivelazione che è presente in Gesù.

L'ultimo testimone chiamato in causa da Gesù, le Scritture, non fa' che confermare la cosa.

Esse rimandano a Lui e, ancor di più, trovano proprio in Cristo il principio della loro verità.

Ma chi non accoglie il Figlio non sa scrutare nemmeno la Scrittura.

Nessuna testimonianza sembra essere servita. Da dove tanta cecità e resistenza?

Gesù denuncia il comportamento dei suoi avversari, svelando come nei loro cuori non vi sia anzitutto l'amore di Dio e per Dio, bensì la ricerca della gloria presso gli uomini.

Se avessero in cuore l'amore del Padre non potrebbero non accogliere il Figlio.

Ma essi accolgono più volentieri altri, perché di altro hanno riempito il loro animo.

In apparenza adoratori di Dio.

Nel cuore, idolatri. La loro fede è, in realtà, una "malafede".

Nonostante ciò, Gesù si smarca dal ruolo di possibile accusatore dei suoi nemici.

Non muoverà loro alcuna accusa.

Saranno invece la Legge e Mosè, ai quali loro si appellano a condannarli.

Il rifiuto di Gesù è infatti la prova che, in realtà, i Giudei non hanno nemmeno creduto a Mosè e alla sua Legge, nei quali la testimonianza a favore era presente e affidabile.


Malafede non avrai il mio scalpo.

Non c'era verso. Nessuna testimonianza sarebbe valsa.

«Non avete in voi l'amore di Dio».

D'altronde con chi è in malafede nemmeno l'evidenza vince.

Anzi, a volte l'oggettività diventa un'arma a doppio taglio. Perché il malizioso ai fatti si attiene volentieri e ne fa i suoi alleati.

Si sa che il problema è l'intenzione, il cuore.

Lì sta il difetto in caso di malafede.

Le mani sono pulite. Il contatto appare sano.

E quando si scopre il «marcio» quanto male fa?

Brutta cosa la malafede, brutta davvero. Ha proprio il sapore di una morte.

Le volte in cui la si subisce si ha la netta sensazione che è stato ucciso.

Ci si mette poi sulle difensive: primo non prenderle, più.

Meglio tutelarsi, essere più cauti.

Utile è prendere le distanze, magari una volta per tutte. Ognuno per la sua strada.

E poi, al massimo, cercare di perdonare, non serbare rancore, non giudicare troppo.

Ma non più di questo.

Ma così ci si ferma al Venerdì Santo.

Chi invece crede al Risorto, ha sempre nel cuore il desiderio, la domanda, la fede in una Vita che non muore.

Non solo per sé ma anche e soprattutto per l'altro. Quand'anche fosse malvagio.

Che ne sarà di colui che si è lasciato prendere dalla malafede facendomene pagare il prezzo? Di che vita vivrà? Di quali conseguenze porterà il peso? Come curare lui insieme a me, entrambi feriti dalla malafede (sì, entrambi, perché il male ferisce anzitutto chi lo fa)?

Credere alla Pasqua non è sapere come rispondere a queste domande. Ma avere il coraggio di porsele.

Perché la morte non è l'ultima parola, neanche quando ha il volto della malafede.